Il significato dei colori nei volumi della Libraria di Francesco Maria II e un nuovo sguardo su alcuni ritratti della collezione roveresca
Le cose estrinseche spesso fan testimonio delle intrinseche
(Baldassarre Castiglione, Il cortigiano, II, XXVII)
FLAMINIA PETRASSI
La Libraria dell’ultimo duca di Urbino (1549-1631) contava circa 13000 volumi tra libri a stampa e manoscritti1. Tale patrimonio bibliografico era suddiviso in 70 Scansie di cui la 50, intitolata alle Artes variae, è stata oggetto di uno studio bibliografico da parte di Fiammetta Sabba e di una sistematica ricognizione iconografica nell’ambito del progetto universitario “Immaginare i saperi” coordinato da Massimo Moretti2. La Scansia 50 conteneva, in ventuno sottoscansie, volumi dai soggetti apparentemente eterogenei che spaziano dall’arte del cavalcare e dei cavalli, alla caccia, alla scherma, al gioco degli scacchi, all’arte culinaria, ai conviti, al ballo, all’arte calligrafica, sino alla pittura e alla scultura, alla numismatica, all’alchimia e all’estrazione dei metalli, alle pietre preziose, al sale, alla calamita3. Tra queste, una sottoscansia peculiare per composizione e contenuti dei volumi è la numero 21, intitolata De rebus varijs4. L’inventario più antico della biblioteca ducale, il Ms. 50, segnala alcuni dei cinquantasette volumi di questa sottoscansia anche in altre scansie confinanti, dalla 42 alla 505. Poiché molti testi sono tematicamente affini ad altre sottoscansie, la Sabba ha visto nella De rebus varijs uno spazio di appoggio destinato ad accogliere i volumi che non avrebbero trovato una materiale sistemazione nei palchetti di appartenenza6.
Tra i testi della De rebus varijs un piccolo nucleoriguarda i colori e il loro significato ed uso nelle fonti antiche e moderne, e nelle pratiche sociali contemporanee. Se ne riportano di seguito i titoli: il Trattato dei colori nelle arme, nelle livree et nelle divise di Sicillo Araldo del 14587; il Significato de colori e de mazzolli di Fulvio Pellegrino Morato del 1559 (fig. 1)8;
il Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà dei colori di Ludovico Dolce del 15659 e il Mostruosissimo Mostro di Giovanni Rinaldi del 1584 (fig. 2)10.
Tali opere, tralasciando gli aspetti più tradizionalmente medico-filosofici, si concentrano principalmente sulla nomenclatura dei colori indagandone i valori simbolici intrinseci al fine di un loro corretto uso in società. Il tema dei colori è strettamente connesso all’ars medica, come testimonia d’altronde il libro XXXV della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, nel quale si parla diffusamente delle proprietà curative di elementi naturali utilizzati anche come pigmenti11. Si spiega dunque perché i quattro titoli sui colori sopra menzionati siano registrati nella Scansia 50 sotto il titolo De rebus varijs, ma anche segnalati altrove come appartenenti alla Scansia 49 (Farmacologia e medicina).
Sarà interessante in futuro svolgere una ricognizione ad ampio raggio sull’insieme delle conoscenze inerenti i colori rintracciabili nella Libraria di Francesco Maria II, e sulla loro collocazione all’interno delle singole scansie. In questa sede ci limiteremo, tuttavia, ad esaminare i contenuti dei quattro testi raccolti nella sottoscansia De rebus varijs, applicandoli alla lettura dei ritratti della collezione ducale, sperimentando la possibilità di condurre ricerche “circolari” sul patrimonio artistico, librario e archivistico della corte roveresca eccezionalmente conservato, seppure in diverse sedi. Si proporranno, perciò, una serie di “rimandi interni”, seguendo una metodologia che guida l’intero progetto “Immaginare i saperi”. Sarà così possibile offrire, attraverso un dialogo tra fonti figurative e letterarie interne al medesimo contesto, una spiegazione plausibile, ma senza determinismi, sulle intenzioni di un artista o di un committente legate alla scelta di un vestiario, di un accessorio o di un colore, considerando quest’ultimo in particolare come elemento significante, alla luce di codici linguistico-visivi individuati come appartenenti a una stessa “corte”, in definitiva a un tempo e a uno spazio condivisi. Esaminato un certo spettro di saperi qui rappresentato dai volumi della stessa Libraria, ci si potrà domandare quali potessero essere le osservazioni di uno spettatore del Cinquecento o del Seicento sui colori attribuiti, ad esempio in un quadro, a cose e persone.
Sulla storia dei colori e sul loro significato morale
L’interesse per i colori nel Cinquecento è stato indubbiamente innescato dalla riscoperta del trattato Perì chromáton tramandato nel Corpus Aristotelicum, dato alle stampe per la prima volta in lingua originale nel 1497 nell’edizione curata da Aldo Manuzio (1450 ca. – 1515), e tradotto in latino nel 1548 con il titolo De coloribus libellus dal medico e filosofo napoletano Simone Porzio (1496-1554)12.
Oltre ad interessare i diversi campi della medicina, della farmacologia e delle arti, lo studio sui colori nasce come necessità di indagare uno specifico aspetto del rapporto tra l’uomo e le cose che lo circondano, ponendo questioni filosofiche che riguardano la qualità e la natura dei colori, oltre che la loro percezione13.
Nei poemi omerici “chroma”, vocabolo che indicava “pelle” o “carne”, diviene più generalmente un termine impiegato per indicare il colore di un oggetto, inteso come una proprietà della superficie di un corpo: ciò sarà valido dai Pitagorici – come Alcmeone di Crotone (490-430 a.C.) – ad Empedocle (483-423 a.C.) a tutti i pensatori antichi, esclusi Democrito e gli atomisti in quanto sostenitori dell’idea che gli atomi, che compongono la realtà tutta, sono privi di qualità sensibili e, dunque, anche esenti dal colore14.
A partire dall’inizio del XVI secolo si constata un’abbondanza di pubblicazioni volte per la maggior parte a definire le qualità fisiche del colore in relazione alla percezione dell’occhio umano. Tra queste l’operetta De colore di Roberto Grossateste (1168-1253), il Libellus de coloribus di Antonio Telesio (1482-1534) e il De coloribus di Guido Antonio Scarmiglioni (1560-1620), trattati che molto dipendono dall’opera dello pseudo Aristotele e dei quali erano presenti edizioni nella Libraria ducale15.
In particolare, d’impostazione più filologica («Dicam aliquid de coloribus in hoc libello […] nec enim pictoribus haec traduntur, aut philosophis, sed tantum philologis»16) è il Libellus de coloribus di Antonio Telesio, pubblicato a Venezia nel 1528. Sebbene l’autore non tratti la simbologia dei colori, bensì ne ricerchi accuratamente le etimologie dei nomi – ricordando in tale procedura Plinio -, l’opera fu senz’altro nota almeno a Fulvio Pellegrino Morato che, qualche anno dopo, nel 1535, avrebbe dato alle stampe il suo lavoro. Telesio intitola i capitoli ai colori principali (Coeruleus, Caesius, Ater, Albus, Pullus, Ferrugineus, Rufus, Roseus, Ruber, Puniceus, Fulvus e Viridis), che vengono però corredati di numerose varianti, sino ad arrivare ad un totale di più di cento termini. Interessante notare che il Ms. 50 segnali la presenza dell’operetta del Telesio in più scansie, e ne registri la presenza anche all’interno di volumi di altri autori17. Ad esempio, è presente in un’opera miscellanea insieme a quella dell’Actuario De urinis, edita a Basilea nel 1563 presso Andreas Cratander e collocata nella Scansia 46 intitolata Opera medicinae Hippocratis Galeni et Auicennae18. In effetti, gli autori che comparivano nella Scansia 46 sono elencati nelle cc. 72 v – 73 r del Ms. 50, divisi tra commentatori di Ippocrate, di Galeno e di Avicenna: tra gli altri scrittori di medicina, compare «Antonius Thelesius in libro Actuarj»19. È un dato di considerevole importanza se si valuta che i colori in Ippocrate e Galeno sono associati ai quattro umori e che Avicenna individua una correlazione tra colore, costituzione psico-fisica, salute e malattia.
Il Libellus di Telesio risulta inoltre nell’opera miscellanea De re navalia di Lazare de Baïf (1496-1547), edita a Basilea nel 1537, che, come testimoniato dal Ms. 50 alla c. 326 v, trovava sistemazione presso la Scansia 66 Hyerogliphica Simbola Emblemata et Lectiones variæ e specificatamente nella sottoscansia Lectiones variæ 20. La stessa edizione include, dello stesso autore, il De re vestiaria del 1536, opera che prende le mosse dal libro XXXVIII delle Pandette di Ulpiano. Incentrato in parte sulla discussione di alcune restrizioni sull’abbigliamento nel diritto romano, è considerata la prima monografia sul tema dell’abbigliamento e, proprio per questo motivo, ottenne un rapido successo, come deduciamo dal fatto che molti autori successivi vi fecero inevitabilmente riferimento21. Nonostante De Baïf articoli il suo volume in ventuno capitoli che concernono il vestiario e si soffermi, ad esempio, sulla differenza tra abiti maschili e femminili, sulla loro funzione e fabbricazione, presenta nel capitolo IX, De lanarum e vestitu coloribus, anche un elenco di colori di cui viene riportato il nome, in latino e in volgare, corredato della sua definizione e riferimenti storici e letterari per spiegarne il significato22. Dunque, il «purpureus color in vestimentis» èriconosciuto universalmente come manifestazione esteriore dell’ottenimento della carica della magistratura romana, mentre sui panni aurei De Baïf spiega che «tunica aurea triumphasse Traquinium Priscum Verrius apud Plinium tradit»23. In realtà, l’autore si sofferma più a lungo sulla descrizione degli abiti, sulla loro origine e sul corretto modo di indossarli piuttosto che sui colori di cui debbano essere tinte le vesti. Della medesima sostanza, il Degli Habiti antichi, et moderni di diverse parti del mondo di Cesare Vecellio 24.
A dispetto degli stretti rapporti esistenti tra Francesco Maria II e Ulisse Aldrovandi (1522-1605), non sembra invece presente nella Libraria di Casteldurante il Trattato dei colori scritto dal naturalista bolognese, testo mai dato alle stampe e conservato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna (Ms. 72)25.
Il tema dei colori ha ovviamente un posto fondamentale anche nei trattati sull’arte della pittura, alcuni dei quali posseduti da Francesco Maria II26.
A riflettere invece sul significato morale delle cromie, interpretate come attributi di personalità, è Simone Porzio nel suo De coloribus oculorum (1550): «[…] la molta nerezza de gli occhi, suol significare secondo i Greci mollitie, e effemminatezza»27.
Il significato allegorico e morale dei colori si diffonde soprattutto nella prosa cinquecentesca, intrecciandosi alle tematiche amorose: certamente il binomio amore-colore affonda le proprie radici nel lascito della cultura cortese precedente, con i suoi ideali cavallereschi incentrati sull’esperienza e sul senso della vista e legati a doppio filo ai trattati d’Amore e ai romanzi in prosa come il Libro de natura de amore di Mario Equicola(1525), lo Specchio d’Amore di Bartolomeo Gottifredi (1547) e la Filena istoria amorosa di Niccolò Franco (1547)28.
Uno dei primi sonetti sui colori è riportato alla c. 10 r dell’Opera nuova di Vincenzo Calmeta, Lorenzo Carbone, Orfeo Mantovano e Venturino da Pesaro et altri auctori (1507), ma la sua paternità è ancora discussa29. Stando alle fonti sin ora rintracciate, l’opera Pantheon di Celebrino Eustachio (1525), pare sia stata recettiva nei confronti di tale impostazione: in apertura viene redatto un componimento poetico sulla simbologia dei colori che tenta in maniera esplicita di trovare una congruenza tra il colore della veste indossata e l’umore o il sentimento nutrito30. Anche Marin Sanudo il giovane (1466-1536) inserisce in un’antologia poetica conservata in un codice della Biblioteca Marciana di Venezia il Sonetto di colori, senza tuttavia segnalarne la paternità31.
Dunque, affidare a un sonetto che fa da incipit dell’opera il compito di sintetizzare le qualità morali dei colori diverrà prassi per molti autori della seconda metà del Cinquecento, tra cui il già citato Fulvio Pellegrino Morato, che in seguito vedremo nel dettaglio. Accade lo stesso nell’Interpretatione de colori, opera anonima stampata a Modena nel 1567 e nel Trattato de colori di Coronato Occolti stampato l’anno successivo32. Quest’ultimo volume è suddiviso in XXI capitoli, uno per ogni colore esposto nel componimento poetico di apertura e, sulla scorta di quanto redatto da Sicillo Araldo, si aprono le sezioni intitolate De’ colori accompagnati e De’ colori in livrea, tra le cui righe, ad esempio, si legge: «Se il Vermiglio sara in divisa con l’atro, et pallido, mostrera ira, discorsia, timore, et inganno essendovi per il quarto il zallolino: col cinereo, et color di rosa secca, mostrera furibondo morire, per l’amor lasciato, e ancorche con honore delle parti, et se con questi fara il cesio, per crudeltà, et per freddezza essendovi il violetto»33.
Altri segnali di diffusione della simbologia cromatica compaiono nel Libro de amore chiamato Olympia (1522) di Baldassarre Olimpo degli Alessandri da Sassoferrato (1486-1540 ca.), in cui si legge: «se il giallo dice che l’ardor sia spento/ È spento forse in voi l’ardor, la fiamma»34.
Anche in opere letterarie come il Cortegiano (1513-1524) di Baldassare Castiglione e l’Orlando Furioso (1516) dell’Ariosto, si registrano con «giochi di ingegno» espressioni del carattere interiore attraverso l’esteriore segno dei colori («le cose estrinseche spesso fan testimonio delle intrinseche») e, dunque, attraverso le tinte degli abiti35. Persino Tommaso Campanella (1568-1639) in Sopra i colori delle vesti arricchisce le testimonianze che identificano il Nero come colore distintivo di nobiltà e potenza, non quindi esclusivamente associato al lutto36.
Nel suo Discorso de’ colori (1595) Antonio Calli, dopo una riflessione di matrice filosofica sulle proprietà fisiche del colore, si avvicina alla trattazione del tema soffermandosi sull’uso dei colori nelle armi e nelle livree, tramite la variazione dei quali «si vuol […] dilettar la vista de’ riguardanti, o muover questi ad affetto, od accennarle e significarle il pensiero»37. In particolar modo, grazie al fatto che ha composto l’opera allo scadere del secolo, l’autore riesce a fare ordine tra la sconfinata varietà di opinioni relative al significato dei colori, che raccoglie infatti in chiusura della sua opera. Riportando i sonetti a lui precedenti, offre una visione d’insieme dei componimenti poetici di Antonio Beffa, Alciati, Giacomo Beffa, Fulvio Pellegrino Morato, Giovanni Rinaldi, Serafino Aquilano e, infine, il suo proprio38.
Occorre però compiere dei passi indietro, poiché prima di sconfinare e diffondersi nel mondo della moda, la tendenza a caricare le cromie di valori simbolici era prassi ampiamente impiegata nell’araldica medioevale39. Sicillo Araldo, anche noto con il nome di Jean Curtois, è uno tra i primissimi autori ad esprimersi sul tema in Le Blason de toutes armes et éscutz, opera terminata nel 1420, ma data alle stampe a Parigi solo nel 1495, mentre per l’edizione italiana, stampata a Venezia presso Giorgio de’ Cavalli, bisognerà aspettare il 156540. Rimanendo in ambito araldico, anche Luca Contile (1505-74) pubblica un volume sul tema nell’anno della sua morte, Ragionamenta sopra la proprietà delle imprese che, però, tratta anche di simbologia cromatica nella sezione Delle divise, e de’ colori, mettendo in relazione le cromie con l’alchimia e le pietre preziose 41.
Dunque, nel Cinquecento, il sapere sui colori era ampiamente condiviso e il loro studio seguì una duplice direzione: da una parte fu all’origine di una produzione letteraria denominata «galatei dei colori», volta a svelare i significati sottesi all’abbigliamento, alle stoffe e ad altri materiali utilizzati, per esempio, nelle livree; dall’altra, più prettamente scientifica, perseguì l’interesse per i misteri fisico-materici dei pigmenti 42.
De coloribus nella Libraria di Casteldurante
Dopo questa prima necessaria premessa, è bene entrare nel merito degli scritti sui colori che è stato possibile isolare all’interno della sotto-scansia De rebus varijs.
Piuttosto complessa è l’esatta individuazione del corrispettivo cromatico cui gli autori si riferivano nei testi. Nonostante sia possibile solo in parte recuperare l’aspetto originario delle tinte trattate, sarà utile tentare di applicare il significato dei colori a mirate letture cromologiche43.
Purtroppo, a causa della sua mancanza sia nella Biblioteca Alessandrina che nella biblioteca di Castel Durante, non è dato sapere quale fosse l’edizione dell’Araldo della Libraria ducale: nel Ms. 50 l’autore viene ricordato alle cc. 80 v col. b e 493 v col. b, mentre l’opera viene segnalata nella c. 409 r con la dicitura: «Sicillo Araldo, Del significato dei colori, in 8vo Sc. 49 n.».
Nell’incipit l’autore esprime l’intenzionedi rendere conoscibili «quanti colori sono nell’armi, e come sono disposti, e sapere ancora, e vi sono dui metalli principali, e quattro colori che sono sei in tutto, e che di questi sei meschiati insieme, se ne causa ‘l settimo»44. Infatti, l’autore propone argomentazioni sull’adeguato modo di indossare e combinare oro, argento, rosso, azzurro, nero, verde e porpora a seconda del giorno della settimana, del rango di appartenenza e dell’età, trovando corrispondenze con gioie preziose, pianeti e virtù cardinali e teologali45.
Anche Giovanni Rinaldi ragiona sulla funzionalità e simbologia dei colori nel suo Mostruosissimo Mostro «per isprimere i concetti, e le passioni dell’animo», ritenendo «nobilissima l’inventione delle colorate divise, e imprese, imperoche leggiadramente con quelle si può far palese l’intrinseco, e far conoscere alle amate donne in quale stato, per amarle, si ritrovi»46.
Fulvio Pellegrino Morato riferisce che il suo sonetto sia utile «non tanto per contraddire all’opinione del Serafino, quanto per eradicare la perversità del volgo»47. Ludovico Dolce, per fugare ogni pregiudizio intorno alla trattazione del tema dei colori, si richiama all’autorità degli scrittori antichi greci e latini48.
Tuttavia, dal momento che i colori nominati dai quattro autori dei volumi presenti in Libraria corrispondono per lo più in numero e in terminologia, si ritiene opportuno entrare nel merito dei significati attribuiti a ciascuna tonalità.
Verde, verderamo, verdegiallo
Scrive il Morato che il «color verde ridotto a niente dimostra». Per spiegarne il significato rimanda alla consuetudine antica, già narrata in Omero, di apporre sugli altari degli dèi facelle (piccole fiaccole) all’interno di un legno ancora verdeggiante per garantirne la stabilità. Una volta che la fiamma si è esaurita, non rimane null’altro di visibile se non il verde supporto: in virtù di questa spiegazione è evidente che l’espressione volgare «essere al verde» significhiproprio«essere caduto nelle miserie estreme»49.
Per avvalorare le sue argomentazioni, l’autore riporta un dato riscontrabile in natura: «consunto» il porro verde «non è più cosa che gli possa piacere al gusto», poiché alle estremità di frutta e verdura corrisponde un sapore amaro. Giungere al verde, dunque, non può che denotare una situazione sfavorevole.
Alla luce di ciò, si comprende perché in passato, soprattutto «Romagnoli, sopra tutti Ariminesi, volendo mostrare gramezza per la morte di qualche suo, come per significare che per quella morte son senza speranza, de tal colore si vestino». Inoltre, «queste auttorità sono de più peso che dire» che le erbe e le foglie «allegrano» gli occhi durante la primavera, o che le «pitture verdeggianti diano ricreatione alli occhi»50.
Non poteva non essere citato il libro XXVII della Naturalis Historia di Plinio che, ripreso pure da Rinaldi, ricorda le sepolture degli antichi di verde adornate. Non a caso – dice Morato – l’anello indossato da Isabella Gonzaga d’Este, arricchito dallo smeraldo, è stato ritrovato nella sepoltura della figlia di Cicerone51.
Il significato di questo colore è da considerarsi tuttavia ambivalente a seconda delle opposte interpretazioni che se ne possono dare. Pur citando il medesimo esempio di Morato sulle facelle degli altari, nel sonetto di apertura al trattato del Rinaldi viene attribuito al verde un’accezione positiva. Una volta che la fiamma si fosse esaurita «[gli antichi] facevano allegrezza e festa» per aver acquietato gli umori degli dèi grazie al sacrificio concluso.
Citando i classici, Rinaldi richiama Plutarco e l’eroica impresa compiuta da Teseo contro il Minotauro, al termine della quale fu allestito uno spettacolo «nel quale non si vedeva altro che verdi frondi» per manifestarne il successo. Allo stesso modo la Chiesa romana «per l’allegrezza del venuto Messia» porge il ramo d’ulivo in occasione del giorno delle Palme.
In questa rinnovata ottica, è evidente che per l’autore il verde sia Speranza e Gioia e fa infatti riferimento alla ciclicità delle quattro stagioni: dopo il lungo Inverno, le fronde si risvegliano nuovamente facendosi verdi e la Terra ride lieta («ride il mare, ride l’aria, ride il cielo, di odori, di allegrezze, di canti, di dolcezze n’è pieno ogni luogo»)52.
La medesima aura di serenità associata al verde è espressa da Sicillo Araldo, per il quale è inevitabile il riferimento del colore a boschi, prati e campi; è «assimigliato all’Allegrezza e alla gioventù» al punto che, infatti, è il colore indossato dai giovani lieti e, soprattutto, si porta nel mese di maggio. Inoltre, poiché significa «bellezza, letitia, amore, gioia, e perpetuità» il verde rimanderebbe al sacramento del matrimonio. Coerentemente con l’idea di una natura che si risveglia, il mese di aprile corrisponderebbe a un verde scuro, mentre maggio a un verde chiaro.
Il significato dei colori secondo i luoghi dove sono posti è una sezione del Trattato di Araldo: su insegne e stendardi il verde indicherebbe «contentezza, e risolutione di combattere»; su un fanciullo, ne esprime la «giovinezza», mentre su una donna «Amore». Nella sezione Significato morale de i colori, Araldo spiega che il colore verde insegna come «dovemo ringratiare, et honorare il Signor nostro, del bene, che ci ha fatto, per nodrirci e sostentarci, facendo crescere gli arbori, le piante, i prati, l’herbe, le foglie, i fiori et i frutti»53.
Del verde esiste molta «varietà», come scrive Dolce, ma come una cosa «e men bianca o nera» di un’altra, non per questo «ella perde il nome del Bianco o del Nero» e, allo stesso modo, il verde54.
Infatti, Morato si sofferma su particolari gamme del colore verde: il «verderamo», che prenderebbe il nome dal «colore de un stipite di una fronde verde» o dal colore della parte inferiore dei ceri, dipinti di verde in ricordo dell’antica tradizione di introdurre le facelle dentro i tronchi freschi; il «veneto», altrimenti detto «thalasico» è un verde scuro che, in virtù dei significati di mestizia e spiacevolezza, è proprio dei «poveri nocchieri» e delle matrone romane, le quali, «in segno che elle non pensavano ad alcuna allegrezza, ne a piacer del mondo» coprivano di questo colore «le carette sue»55.
Sulla connotazione negativa del «verdegiallo» concordano il Morato («al Verde Gial poca speranza resta»), il Rinaldi («di spene il Verdegial già quasi morta») e il Dolce56. Per dirlo con le parole dell’autore mantovano, il verdegiallo allude alla perdita di vigore poiché di tale tinta sono le erbe quando «hanno perduto il suo succo» perché ruminate dagli animali: l’agricoltore, consapevole del colore reale, verde scuro, di erbe e verdure, alla vista del verdegiallo, «che il volgo Italico, ovunque tu voi sol chiamar sbiavo», rimarrebbe privo di ogni speranza57.
Araldo attribuisce il medesimo significato («levar la speranza a chi lo porta […] diffidentia, et inganno») al «zallolino», generato dal «color bianco debile, che tiri alquanto al Rosso»58.
Sull’aspetto della tinta possono tornare utili le denominazioni alternative di «rancido» e di «rosa secca» del Rinaldi. Significativa la definizione della vecchiezza «rancida» una volta perduta la «tenera e verde età»: di tal colore le foglie sugli alberi d’autunno che, in procinto di cadere, dimostrano così di essere prive di vigore e, dunque, di speranza. Per la medesima ragione, è il colore degli amanti in preda alla sofferenza: Bradamante, nell’Orlando Furioso, disperata per aver perso il suo amante Ruggero, impugna la spada e «si pose sopra l’arme una sopravesta di questo colore, e ciò per palesare in quale stato si trovava per amore»59. Inoltre, anche il Codice «che di diverse cose tratta» è rivestito di un cuoio verdegiallo60.
Per Dolce, il rosa secca è il colore simile alle «foglie delle viti, quando elle sono secche» che dai Greci è chiamato «xerampelino»61.
Rubro, porpora, violetto, incarnato e gli altri rossi
Poiché secondo Araldo il rosso allude a «cose sanguigne», il suo impiego si addice al contesto militare per la decorazione di armi e animali da combattimento, al fine di accrescere «l’ardire a quelli che combattono»62. Rinaldi ricorda come lo stesso dio Marte, «nemico di pace, amico di discordia», si dipingesse con uno scudo di tal colore a significare «vendetta, crudeltà e stratio»63. Concordano con l’interpretazione generale anche Dolce, che lo chiama altrimenti «rubro» e Rinaldi («di mano il Rosso ària vendetta sorta»): la bara funebre del valente capitano di guerra viene velata di colore rosso, per render noto che in vita «sempre nuotò nel sangue de nemici», come anche scrive Virgilio in più passi dell’Eneide. Inoltre, riprendendo Plutarco, i quattro autori spiegano perché i soldati indossano vestimenti rossi: da una parte, la volontà di incutere timore agli avversari ma, al contempo, «per dar […] ad intendere che quali di fuori apparivano, tali di dentro erano gli animi desiosi» di sparger sangue64. D’altronde, poiché alluderebbe a ciò, Araldo informa che «la Chiesa usa i Palij d’altare, e i vestimenti rossi nelle feste dei martiri», oltre ad essere il colore dell’abito con cui si dipinge Gesù nella Resurrezione. Infatti, il rosso «ci mostra come debbiamo contemplare la morte, e la passione di Giesu, e haverne cordoglio, infiammandoci nella virtù del la carità». Inoltre, è l’abito appropriato a «molti gentil’huomini» e di valore, alle «genti di Giustitia», ai soldati e dai «Canonici di alcune chiese […] come i Cardinali» e in Francia i fanciulli che «cantano in choro». Indossato dall’uomo significherebbe «buon cuore», sulla donna «ostinazione», sui fanciulli «desiderio di giocare» e su insegne e stendardi «ardire e valore». Se il cielo è illuminato da questo colore, significa poi «l’ira di Dio». Conclude associando a questo colore il mese di luglio65. Di contro, per il Morato «il rosso ha poca sicurezza» e può essere addirittura indice di «viltade e codardia» poiché funzionerebbe come rimedio al timore dei giovani soldati di combattere. Nell’eventualità di ferite, infatti, i «vestimenti» di color rosso avrebbero evitato di impressionare i combattenti alla vista del sangue66.
Rosso è anche il colore dell’elemento fuoco. Araldo non manca di ricordare che le vesti dei cardinali sono rosse, per «dimostrarsi sempre infiammati d’amore e di carità»67.
Per il medesimo motivo, come ricorda Rinaldi, Amore trionfa su un carro «rosseggiante fuoco», mentre le ali dei suoi «volanti corsier» sono dette «purpuree» dal Petrarca «che altro non significano, se non le subite, e penose vendette che fà cadere sopra gli innamorati»68.
Morato tratta il porpora recuperando Orazio che definiva i tiranni «purpures» per una duplice ragione: «o per che siano cruenti della morte de molti de suoi; o perche rari Tiranni sono li quali non muoiono di morte violenta»69.
Per Araldo il porpora, «colore fra ‘l rosso, e ‘l nero ma tira piu al rosso, che al nero», è ottenuto dalla mescolanza di tutti i sei colori principali. Proprio perché risultato di più colori insieme, ritiene che il porpora non abbia in sé alcuna virtù; per la medesima ragione, altri sostengono invece che sia il colore più nobile, partecipando delle qualità degli altri colori. Per tale motivo, per il suo costo e il suo prestigio, solo a «Re e Vescovi» è concesso vestire di porpora. Il significato morale intrinseco al porpora è mostrare «come dovemo honorare i nostri padri spiriturali», i re, i principi e giovernatori. Nei sacramenti, è assimilato all’ordine sacerdotale, perché al «tempo antico se ne vestiuano come fanno hoggidì i Cardinali» e il suo mese dell’anno corrispondente sarebbe novembre70.
Dolce identifica il «rubro», o «vermiglio», con il sangue degli animali che «latinamente è detto Cocco», usato sovente per tingere la lana, il quale «dai nostri è detto grana». Il colore è «sì fattamente grato che ogni cosa, che habbia un poco di vermiglio […] spesso è detta purpurea»71.
Nel suo trattato, Araldo cita sporadicamente una variante del porpora, il violetto, colore «mezzano» tra il rosso e il turchino che racchiude in sé una moltitudine di significati, anche in contrasto fra loro. Si addice a donne e mercanti e, se indossato da un uomo o da una donna esprimono egualmente «fedeltà», mentre sui fanciulli è espressione di «dolcezza». Su insegne e stendardi dichiara «esser lontano da ogni maniera di tradimento». Inoltre, il violetto insegna a «seguire il nostro Signore con ogni maniera di buone opere» e sarebbe espressione del mese di ottobre72.
Sull’incarnato, «un rosso mal tinto», altrimenti «dalla rosa» detto «rosato» o «roseo», gli autori concordando all’unanimità: di tal colore è l’insegna di colui «che gode e si trastulla di morire d’amore, et nell’amoroso fuoco». Significando «habitare nella carne» e, dunque, «il compimento de gli amori», sarebbe il colore «da inamorati, da giovani, da cortigiani, e da i porta pennacchi». Giugno il suo mese73.
Un incarnato più scolorito è il color fior di persico, che per Araldo indicherebbe «ricchezze venute meno, haver perduto il cuore, e poca nobiltà»74.
Dolce, oltre a individuare una notevole varietà di violetti, amplia la terminologia dei rossi: il «rufo», colore «non pienamente rosso, ma che tira al giallo e al bianco» con cui si identificano i toni delle lentiggini, si differenzia dal «rubro», anche denominato «vermiglio»; il «feniceo», anche detto «puniceo» dai Fenici o «paonazzo», avrebbe un aspetto «viola infiammato» e, infine, il «colossino», simile al fiore detto ciclame, di tinta tra il candido e il purpureo, il cui nome deriverebbe dalla città di Colosso in Troade (parte nord-occidentale dell’Anatolia). Tra il rosso e il nero parrebbe collocarsi l’«horribile» colore che è l’«atro», chiamato anche dagli antichi «antracino» dall’antrace, cioè carbone. Nell’aspetto, infatti, assomiglia al colore «d’uno estinto carbone», ma atro si dice anche del sangue che, quando sgorga dalle ferite, si raffredda e perde la «rossezza», e la tonalità quasi muta in color carbone. Tuttavia, l’atro è differente dal nero75.
Giallo, flammeo, oro
Il giallo è associato dal Morato alla speranza poiché di questo colore si illumina il cielo al momento dell’Aurora. In effetti, Omero nella sua opera «induce la speranza renovarse nascendo l’aurora»76: soldati o naviganti ritrovano la speranza, dopo un momento di sconforto, alla vista dell’alba. Per la stessa ragione, l’autore consiglia di adottarlo nelle insegne militari per incoraggiare i combattenti a non soccombere a «fatiche, pericoli e infortuni».
Come sempre, Morato si richiama alla tradizione classica: era usanza, tra le matrone romane, indossare sul capo un velo denominato flammeo, da cui il colore desume il nome, in occasione di seconde nozze per propiziare la fertilità. Tuttavia, il giallo è anche il colore con il quale gli Ebrei il «capo suo adombrano e se quello rifiutano fannolo per non essere conosciuti e vituperati dalli Christiani»77.
Inoltre, essendo la parola giallo formata da un avverbio (già) e da un verbo (l’ho), assumerebbe per Rinaldi anche il significato di possesso («e di dominio il Giallo inditio porta»). Nell’antichità, in effetti, i Re portavano il giallo o l’aurato, per dimostrare di essere non solo «dominatori del Regno, ma ancora padroni de gli huomini che dimoravano sotto il loro Regimento». Per questo il colore può anche essere associato ai concetti di signoria, superbia e arroganza 78.
Definito latinamente «lutheo», simile al «croceo» e al «flammeo», in volgare è noto con «ranzato», «rancio» o «ferrugineo» che «è il medesimo che il giallo […] Benché molti di altra oppenione si ingannino pensando Ferrugineo colore esser verde scuro, il color del Melle, et delle Api, et della cera, è tale». Tuttavia, nel Dialogo di Dolce, si legge pure del «fulvo», colore delle stelle, la cui versione più scura è detta «flavo»79.
Il significato morale del giallo, associato peraltro al mese di agosto, «ci dà ad intendere, che dobbiamo render gratie a Dio di buon cuore, poi che ha fatto cosi bella fabrica, come è quella del Paradiso celeste, per collocarci». Nel paragrafo intitolato Come si deue portare il giallo, l’autore suggerisce che ben si presta ad essere indossato da uomini d’arme ma, tuttavia, lo indossano anche le donne nell’oro degli anelli80. Alle vesti giallo dorate, l’autore attribuisce bontà d’animo, temperanza e saggezza, nonostante il significato muti in relazione ai colori cui è accostato nelle livree. Soprattutto, esso varia se indossato da un uomo, da una donna o da un fanciullo, significando rispettivamente godimento e ricchezza, gelosia, o «pazzie fanciullesche»81. L’oro, di aspetto «né giallo né rosso (come pensano alcuni) ma Flavio tra il rosso e il verde, come il Vitello, cioè de il Torlo dell’ovo», è «ricchezza manifesta» secondo il Rinaldi e il Dolce. Nonostante corrisponda al colore della pecunia, non si tratta solo di una ricchezza terrena portata negli abiti e nei metalli di Re e Regine, ma anche divina, e allude perciò al concetto di Fede («Chi ha fede, e signoria d’oro si vesta»)82.
Poiché l’oro «s’assimiglia in molte cose al Sole» le antiche leggi vietavano che nessuno, al di fuori di nobili e cavalieri, potesse indossare vesti o accessori dorati. Oro sono i gigli della Corona di Francia, per alludere al concetto di Sapienza e per mostrare che i Re dovessero essere «saldi, maturi, gravi e puri come l’oro». Inoltre, poiché i dottori di medicina, come Avicenna e Serapione, ritengono che l’oro «conforta grandemente lo stomaco, e tutti i sensi», è indossato dal Re perché è suo compito a sua volta «confortare, et tenere sereni gli animi de’ lor soggetti»83.
In ultimo, è sovente associata all’oro l’idea di amore: attirando la vista, «dispone l’animo del riguardante ad amarlo, e desiderarlo», da cui nacque l’idea che i capelli biondi e aurati «meglio allacciano e astringono i cuori de gli amanti ad Amore»84.
Bianco, suaso e pallido
È sapere diffuso che il bianco denoti purezza, perché non è «velenato» da nessun altro colore. Nonostante ciò, per Morato il bianco ha un’accezione negativa sulla scorta di un’antica usanza egizia e «fin’al di d’hoggi osservato dalli Hebrei»: i corpi dei defunti di rango nobiliare erano avvolti in veli bianchi «per raccogliere il lor cenere separato dalli altri, che con loro erano abbrucciati». Infatti, il bianco «ha suo appetito, e voglie spente» poiché le matrone greche, vedove e «dolorose», lo vestivano «per mostrare il suo piacere esser sparito». Presso i Francesi, infatti, la Regina rimasta vedova è detta «bianca», poiché priva di ogni suo bene. A sugellare il senso attribuito a questo colore contribuirebbero ulteriori usanze, dal velo bianco con cui le matrone romane e «di molte altre nazioni» si coprivano il capo, per dimostrare che la loro gioventù era spenta, alla pratica diffusa in Italia di lasciare «li muri discoperti et bianchi» nelle case «funestate» in cui rimangono «superstiti li maschi, doppo la morte delle femine». Inoltre, «Bianchito» era denominato un tale «del tutto scernato e villipeso». Per «biasimo e scorno» gli Ebrei vestirono di bianco Gesù, e un bastone del medesimo colore si dava in mano «alli pazzi e vituperati, come li Giudei diedero la cana bianca in mano a Cristo». In ambito militare, Morato riprende Livio nella descrizione dell’esercito dei Sanniti «in bianca livrea ornato» per mostrare «li nuovi soldati cioe senza alcuna gloria». Nell’antica Roma, infatti, il bianco era «habito tristissimo», poiché i soldati, appellati «candidati» in quanto non avevano ancora «imbrattate le mani honorevolmente del sangue nemico», lo rendevano manifesto imbracciando uno scudo bianco 85.
Inoltre, scrive Araldo, soprattutto il primo anno che i cavalieri hanno ricevuto l’ordine di cavalleria, indossavano il bianco 86.
Tuttavia, nel bianco coesiste un segno di allegrezza: basti pensare alle vele del mito di Teseo, agli spettacoli del «quinquiertio» ateniese, durante i quali era consentito indossare esclusivamente una veste bianca, o al suo impiego nei decori della Chiesa, «massimamente nelli ricami», nella rappresentazione degli angeli che dimostrano in tal modo, come dice Rinaldi «la loro pura e immaculata sincerità» e nelle vesti dei religiosi. Sull’aspetto incontaminato della tinta, gli antichi chiamavano il panno bianco «lepicopo», mentre i Latini «suaso», perché facilmente era «persuaso a […] cangiare la sua bianchezza». A riprova della «purità» del bianco, Rinaldi ne racconta il suo impiego durante i sacrifici: il sacerdote vestiva un abito bianco, appellato proprio «puro» poiché «mondo casto e senza macchia», e bianca era pure la bestia da immolare. Per la medesima ragione, anche la fede è bianca, come dice Virgilio nell’Eneide («cana fides»87), perché «fà, dice e mantiene con costanza d’animo ciò che ha detto e promesso», motivo per cui gli antichi vestivano la Verità di questo colore. Bianca è anche la Felicità, come d’altronde si evince nelle Vite di Plutarco: gli antichi chiamavano i giorni felici bianchi, i mesti neri. Tutti i significati del bianco sono raccolti da Rinaldi nel compendio ad inizio volume: purità, castità, onestà, fede, verità e sincerità di animo e di cuore. Infatti, il duca di Ferrara Alfonso D’Este (1476- 1534) «per la pura fede, sincera servitù e benemeriti» ottenne dall’Imperatore Ottone il privilegio di adoperare la cera bianca nei sugelli delle lettere, dando ulteriore riprova del fatto che il codice dei colori era un linguaggio ampiamente esteso, non limitato esclusivamente all’ambito del vestiario88.
Araldo vedrebbe nel bianco «purità» e innocenza. Il suo significato morale mostrerebbe «come debbiamo pensare continuamente, come il grande Iddio ha fatte tutte le cose per noi: come le stelle, le nubi, le acque, le pioggie, la gragnuola, lo splendore, e la luce, con una grande humiltà, per far resistentia alle tentationi». In ambito militare alluderebbe alla «ragione e prudenza nel maneggiar la guerra». Se indossato da fanciulli di età sino ai sette anni denota l’«innocenza loro», altrimenti «conviene» a pazzi e a sacerdoti «quando vogliono servire a Dio», a «pastorelle di contado» e a monache. Il bianco rappresenta l’uomo «giusto e di buona conscientia», «di buona complessione, lieto, risoluto e liberale». Nelle donne significa «castità», nelle giovani da marito «verginità»; nei «giudici giustizia» e nei ricchi «umiltà». Per Araldo rimanderebbe al sacramento del battesimo e il mese dell’anno corrispondente sarebbe gennaio89.
Il «pallido», inserito dal Rinaldi nella trattazione del bianco, poiché dai Latini accostato alla paura («imbianchì per paura»), è trattato dal Dolce («colore horribile e della stessa Morte») e, nel testo di Araldo, è identificato in due modi differenti: vi è il pallido «fra ‘l bianco e ‘l rosso […] vicino al bianco», e quello che «si genera come il Zalolino ma tira alquanto piu al nero» che appare «nella faccia dell’huomo da alcuni accidenti, come serebbe dal gran timore, dal soverchio pensare, e da travaglio», e significa tradimento e astuzia. Il significato morale del «color pallido, e falbo» dimostra come «debbiamo piangere e far penitentia, per haver perdono de i nostri errori, e pigliare modestamente piacere nelle cose del mondo»90.
Argento
L’argento è colore diffusamente utilizzato in ambito bellico. Araldo ne spiega il corretto accostamento nella sezione intitolata Avvertimenti intorno il comporre le Armi. Nell’araldica il bianco è assimilato all’argento e ne condivide i significati di purezza e giustizia. Delle sette età dell’uomo l’argento è l’infanzia fino al settimo anno di età, mentre come elemento l’argento corrisponde all’acqua. Tra le virtù teologali denota la speranza e in ambito astrologico rappresenta la Luna 91. Chiamata argentea, «di pallido colore», infatti, la luna denuncia i dolori dei giovani amanti: «passione, affanno, tema, sospetto e gelosia» e ancora «doglia e perturbatione di cuore per causa di amore»92. D’«argentino» è infatti colorato, secondo Morato, il carro di Venere dea dell’amore. Benché l’argento sia prezioso, tuttavia non è oro. Pertanto, segnala ancora per Dolce il pericolo di essere gabbati93.
Turchino, iantino, ceruleo, indaco, cesio, glauco
Anche se il turchino, per opinione diffusa, rimanda per Morato alla gelosia, è allo stesso tempo il colore del manto della Vergine Maria, degli Apostoli, talvolta del clero, o associato persino a san Gregorio che «volse li Sacerdoti suoi, che sono chiamati Crosacchieri di tal colore vestirsi»94.
L’associazione del colore alla sfera del divino viene riscontrata anche nel culto dell’antica divinità egizia Iside, vestita di azzurro come i suoi sacerdoti 95.
Celeste è il colore del lino in fioritura che proprio per questo ha la capacità di «levare la mente alle cose alte e divine». Il Ruggero dell’Orlando Furioso «che sempre hebbe il pensiero ellevato e volto à fatti egregi», portava sempre uno scudo celeste.
Attingendo a Persio, Morato riferisce di uomini vestiti di una «ianthina veste» in segno delle loro alte ispirazioni da cui il nome del colore «hiacinthino», dal latino “hyacinthĭnus”, letteralmente del colore del giacinto96.
Dolce individua anche il «ceruleo», che mutua il suo nome da «celuleo» cioè celeste («li moderni chiamarono il ceruleo cilestre»). Esiste tuttavia una variante di ceruleo che tende più al nero, l’«indaco», di cui solevano vestirsi le donne greche durante i funerali di coloro «le cui anime stimavano che fossero ite in cielo», motivo per cui alle volte il ceruleo è «tristo e malinconico».
Il «cesio», colore che per i Poeti caratterizzava gli occhi di Minerva, è invece desunto dalla parola «caedes» (sacrificio, carneficina) a significare secondo Dolce il colore degli occhi di chi minaccia di uccidere qualcuno.
Per questo motivo, nella rassegna degli azzurri, si parla anche del «glauco» che per Dolce è il colore degli occhi del leone e della civetta cui, infatti, il suo nome greco rassomiglia. «Glauche» sono dette anche le foglie dei salici e l’ulva, un’alga che nasce nelle paludi 97.
Secondo Araldo, il turchino sarebbe identificabile con il mese di settembre ed è indossato da giovani fanciulle da maritare, «da genti di villa, in capelli, calze, giuponi, e mantelli» ed è presente in molti scudi di cavalieri. Nelle insegne e negli stendardi, infatti, significa «giuditio in guerra»; sull’uomo «sapere», sui fanciulli «acutezza d’ingegno» e sulle donne «cortesia». Inoltre, «l’azzurro, il torchino e il Perso» dimostrano come «il nostro Signor ha fatto, e creato il cielo, l’aere, e le cose terrestri, che ci donano la vita»98.
Leonato, taneto, pullo, natio e cianeo
Il leonato ha origine dal nome del leone, non significando altro che «esser nato leone, cioè forte»: il colore è infatti segno di «fierezza, animosità e robustezza», motivo per cui, secondo Rinaldi, sarebbe indossato da Re e Signori («D’animo invitto è il Leonato essempio»). Come gli uomini «forti e indomiti» mai fuggono le battaglie, così l’amante pronto a mostrarsi «forte e costante» nell’amare con un tal colore lo potrebbe comunicare. Tuttavia, Rinaldi ne riconosce un’altra dicitura, «tanè», di cui individua la radice nella parola «taniae», che significa «estremi delle viti». Era usanza, tra le donne greche, acconciarsi i capelli con una benda o un velo chiamato appunto «taniae», tinto di questo colore, per dimostrare la costanza e la fermezza dell’animo loro99.
Morato, invece, ne individua un’origine differente: «taneo» deriverebbe da un volgarizzamento della parola «castaneo», cui viene sottratta la prima sillaba. Poiché nell’aspetto si rassomiglia al manto del leone, Morato per spiegarne il significato («copre il taneto in se saggia sciocchezza») si rifà alla caccia: gli animali feroci, nel catturare una preda, «astutamente come morti stanno stesi in terra» e le fere, credendoli tali, a questi soccombono. Sulla scia di Petrarca, per Morato il taneto significherebbe «secreto» e risulterebbe, pertanto, «convenelissimo allo Amante tacito»100.
Nonostante non rientri tra i sette colori principali, Araldo associa il taneto al mese di marzo e nella sezione De i colori composti, e delle loro divise ne tratta numerose varianti 101. Ma soprattutto, la tinta acquisisce ancor più eloquenza nel momento in cui si accosta ad altri colori nelle livree: insieme al bianco significa «sufficientia», al rosso «havere perduta ogni maniera di forza», al verde «insieme riso e pianto», al nero «grandissimo dolore del mondo», all’azzurro «patientia nelle adversità», all’incarnato «mala e buona fortuna», al violetto «amore di poca continuatione» e, infine, al berettino «speranza incerta e patienza hoggimai lassa»102.
Rientra nella medesima gamma cromatica il «pullo», denominato anche «fosco», che corrisponderebbe al colore della terra: poiché si soleva spargerla sul corpo dei defunti, chi viveva il lutto vestiva panni pulli, cioè oscuri, a dimostrazione che fosse addolorato per la perdita. Inoltre, anche la schiena della lepre è detta «pulla», poiché «quando è cacciato dalla paura va cercando la terra», beneficiando della conformità dei colori, salvandosi. Il pullo è noto anche con il nome di «natio»: i Cosentini, tra cui sopravvivono antiche tradizioni, chiamano le vesti che durante i funerali sono indossate da ambo i sessi, «natie», colore che praobabilmente si rassomiglia al «cianeo», indossato dalle matrone greche «nelle morti de loro mariti»103.
Berettino, sabbia o bigio
Poiché il berettino «hora ti par bianco, et non e biancho, hor scuro», per Morato converrebbe agli ingannatori. L’etimologia volgare dimostra che la parola «barettino» deriverebbe dal verbo «barare», cioè «ingannare», a riprova del suo significato («chi veste Beretin gaba la gente»)104.
D’altronde, sarebbe opinione comune che tutti i nomi che terminano in «in» siano di male augurio e «massime il colore Berettin». Nell’Orlando Furioso la gigantessa Erifila è vestita di tal colore «acciò che per il mezzo di quella, le genti potessero conoscere la malvagità dell’animo». In realtà, Ariosto scrive «color sabbia» che, per Rinaldi, «non è altro che questo berrettin». L’abito è conforme ai «ladri e rufiani» che ingannano e rubano, nonostante sia adatto anche a «quelli che per vera promissione, ò religione vi vano», per questi denota umiltà. Intorno al berettino aleggiava un’aura negativa già tra gli antichi, poiché colore della civetta «overo Nottola», è un uccello di malaugurio105.
Dolce si discosta dai significati annoverati da Rinaldi di inganno, tradimento, povertà e viltà, poiché nel paragone con gli altri colori risulta umile, e manifestando dunque questa virtù106.
Altrimenti denominato «aereo» o «aquilo» da Morato107, «bigio» da Rinaldi e Dolce, sarebbe da individuare il suo aspetto nel manto dell’asino (Rinaldi) o nella lana delle pecore (Dolce): entrambe le alternative concorderebbero con l’opinione di Araldo, che lo identifica «colore mezano fra ‘l bianco e ‘l nero». Interessante leggere nel Dialogo di Dolce che alcuni si riferiscono al bigio chiamandolo «argentino», quando è indossato «per pompa, o per bizzaria»108.
Per Araldo vi sono più varietà di berettini che significano «speranza, patientia, consolatione, simplicità e buona creanza». Inoltre, al berettino corrisponde il mese di febbraio, è indossato sovente da «mercanti, gente di campagna, marinai e frati di San Francesco» e significa che «dovemo castigar il nostro corpo, con speranza di salir dopo morte in paradiso». Al variare dell’accostamento cromatico, si generano differenti significati: insieme al bianco indica «una ferma speranza di venire a fine del suo desiderio», al rosso «speranza di cose alte», al giallo «pieno di pensieri per non poter dar compimento al desiderio suo», con il verde «giovanezza appassionata d’Amore», con il nero «speranza di venire, secondo alcuni, di ben in meglio», con l’azzurro «venire di povertà in ricchezza, overo di ricchezza in povertà, e ancora stitichezza di troppo sapere», con l’incarnato «speranza di divenir ricco» e, infine, con il violetto «grandissima lealtà»109.
Morello
Poiché il morello è detto latinamente «moreus» dalle more, ed essendo queste «amorosi frutti», per Rinaldi tal colore non significa altro che il «morire per amore», con la cui interpretazione concorda Morato. Signori e Re in effetti lo vestivano in segno di «animosità e fermezza», a dimostrazione del loro imperituro ardire nonostante fossero privati della cosa amata. Allo stesso modo, per Rinaldi, il morello «salda voglia apre in amore»110.
In virtù del suo significato, Rinaldi ne racconta l’origine rifacendosi alla storia dei «duo fedeli amanti di Babilonia» che, con il loro sangue, «cangiarono il Gelso moro, di bianco in vermiglio»111.
Al fine di dimostrare che nella gigantessa Erifila «non regnava una scintilla d’amore», l’Ariosto la priva infatti di questo colore («era fuori che ‘l color di quella sorte, / che i Vescovi e i Prelati usano in corte»112).
Per quanto concerne il suo aspetto, per Morato avrebbe somiglianza con il turchino e significherebbe «constantia, magnanimità, eccellenza maturità senno et consiglio» risultando perciò adatto a dottori e gran prelati113.
Mischio o marmorino
Il mischio, colore che secondo Morato deriverebbe dalla parola «misto» cioè «mescolato», è composto da più sfumature cromatiche. Denominato anche «marmorino» per la rassomiglianza con il marmo, «mostra bizzarria di testa» ed indicherebbe colui che «vuole e non vuole, e seco insieme contrarie cose mischia», e ha dunque «la mente di molte contrarietà corrotta». Con l’interpretazione di Morato («il Mischio mostra bizzarria di testa») concordano Dolce («Dicesi che il mischio dimostra bizzarria») e Rinaldi («mente instabile il Mischio nota»), il quale nel suo compendio iniziale lo associa a «fantastichezza, frenesia, pazzia, poco cervello, instabilità, confusione e discordia»114.
Il Nero
Il nero è l’abito di avvocati, procuratori, notai, medici e filosofi, poiché ne indicherebbe la fermezza115. Tuttavia, poiché «le cose che non si possono volgere in altre» sono «pazzie», in Dolce e in Morato il nero diviene connotato di «mattezza»». Infatti, «alli matti» si tingeva il volto di nero, e di nero li vestivano i Persiani assieme ai giocolieri 116. Al fine di avvalorare il suo discorso, l’autore mantovano aggiunge che la rilegatura del «Libro dei Leggisti» (ovvero degli studiosi della legge) sarebbe di cuoio contenendo al suo interno i nomi e i fatti di quanti avevano commesso crimini e pazzie117.
Riprendendo il medesimo esempio del bianco Morato ricorda come gli antichi segnassero i giorni infelici con «negri lapilli» per denotare mestizia118. Infatti, per la morte di parenti e benefattori era usanza portare il nero, volendo significare mestizia e assenza di ogni allegrezza (Bradamante, nell’Orlando furioso, indossa il nero a seguito della morte del padre). Già presso i Romani era diffusa la consuetudine, come d’altronde al tempo di Rinaldi, di indossare panni «oscuri e negri» per mostrare tristezza e dolore, essendo il nero il più basso e umile tra i colori. Per Araldo il nero è, inoltre, il colore del sacramento dell’estrema unzione. Nella sezione Del colore nero, e de le sue livree l’autore tratta i mutevoli significati del nero a seconda degli accostamenti con livree di diversi colori. Accompagnato al violetto, ad esempio, il nero significherebbe slealtà e tradimento. Il nero, in definitiva, come molti altri colori può assumere significati positivi o negativi119.
Eloquente codice linguistico impiegato di frequente nell’abbigliamento, sui mercanti indicherebbe lealtà, sui giudici «dirittura», sulle donne semplicità e sui peccatori penitenza. Il nero ricorda all’uomo che dalla terra è nato e che alla terra ritorna; è quindi un colore comune indossato da ogni sorta di persone: monaci e religiosi di ambo i sessi, mercanti, donne, giuristi e preti. In ogni luogo il nero indicherebbe semplicità e asprezza di vita. Infine, il mese del nero sarebbe dicembre, forse perché, come in questo mese si ricapitolano tutti i mesi dell’anno, così nel nero si assorbono tutti i colori120.
Prime letture cromologiche alla corte dei duchi di Urbino
La moda dell’abito nero nasce in Spagna nel XVI secolo e da qui si diffonde in tutta Europa. Il nero diventa così distintivo di nobiltà e segno di prestigio sociale121.
Francesco Maria II della Rovere, che nell’inaugurazione del suo ducato indossa un elegantissimo abito bianco122, si fa ritrarre, dopo circa dieci anni, in un rigoroso e spagnoleggiante abito nero, perseverando con questo colore anche in età più tarda e sino alla sua vecchiaia (figg. 3, 4)123.
Nel dipinto di Urbania, che ritrae il duca all’età di cinquant’anni, il panneggio turchino e giallo oro, evocante i colori araldici dei Della Rovere, potrebbe essere letto “cromologicamente” come indicatore della signoria e della fede del Principe (fig. 5)124.
Il nero, d’altra parte, allude al rigor morale ed intellettuale della persona effigiata: gli abiti nei ritratti di Eleonora Gonzaga (fig. 6)
e di Livia della Rovere (fig. 7), seppur adorni di preziosi ricami, confermano la tendenza del secolo a prediligere un’immagine austera per le personalità nobili125.
Sul significato dei colori negli abiti si sofferma con particolare efficacia nel suo testo Sicillo Araldo.
Nella sezione intitolata L’habito morale dell’huomo per i colori, l’autore spiega per ogni capo o accessorio la cromia più conveniente. Pertanto, dovrà indossare una camicia bianca, «per dimostrare, che l’huomo deve esser casto, candido, e di conscientia pura», perché puro e senza macchia è il bianco. La berretta deve essere color scarlatto a indicare la prudenza, perché «come il rosso, è il più moderato colore […] così la prudentia è la più temperata virtù». E poiché la prudenzia si accompagna sempre con la scienza, dice Araldo, il cappello sarà azzurro, colore divino per antonomasia poiché la scienza viene «da Dio ch’è nel cielo ch’è azurro». Il giubbone nero ad indicare la «magnanimità», le calze berettine a significare la «speranza di gionger alla perfettione», e le stringhe del medesimo colore per sottolineare la «fatica» riposta nel conseguire il bene. Le «cinte delle gambe» dovranno essere bianche e nere per assicurare a chi le porta una sempre viva speranza, le scarpe nere per indicare «simplicità ne’ passi», i guanti gialli in luogo di «liberalità, e allegrezza», la cintura violetta poiché sempre deve cingere l’uomo l’amore e la «cortesia»126. Il «rubone» incarnato, «che mostra le manie di viver bene», la borsa verde poiché attira la vista altrui e deve inoltre avere in sé oro e argento, per indicare «quello che ricerca la casa, e la famiglia»127.
Nella sezione Dell’habito morale di una donna, si dice che le pianelle nere dimostrano che le donne devono camminare con «simplicità, e prive in tutto di ogni maniera d’alterezza». Le calze violette a significare la perseveranza, virtù di cui «tutte le donne deveno esser adorne». Come l’uomo, la donna deve avere la «cinta delle calze» bianche e nere «per mostrare un fermo proposito di perseverare in virtù»; la camicia dovrà essere candida e sottile per indicare l’onestà di chi la porta, così come di damasco bianco sarà la «sottana», suggerendo la lontananza «da ogni maniera di lussuria». Il «grensiale» (grembiale) sarà rosso per dimostrare di nutrire costantemente amore per Dio; la «cordella», una sorta di nastro da indossare sopra la camicia, sarà azzurra in luogo di lealtà; la cintura nera per la magnanimità; la borsa d’oro adornata di gioie preziose ad indicare «liberalità», così come di panno d’oro la «robba», con la finalità di attirare la vista degli uomini. Di rosso i guanti, perché una donna virtuosa non può che essere caritatevole. La sua testa deve essere adornata di nero ad intendere che la morte debba essere un pensiero costante. La cinta gialla per significare il «godimento di buon amore fra la donna, e’l marito». Le «tempie» d’incarnato per indicare la prudenza e, in ultimo, ornamenti dorati del capo per indicare «ricchezza di casa128.
Inerente a quest’ultimo dato appare il Ritratto di Vittoria Farnese (fig. 8), datato 1566 e firmato da Giacomo Vighi detto l’Argenta (Argenta (FE), ca. 1510 – Torino, 1573), di cui è ancora poco conosciuta l’attività nella corte urbinate129.
Nel dipinto, oggi sul mercato antiquario, il pittore crea un prototipo di ritratto che, da questo momento, detterà le fattezze della seconda moglie di Guidobaldo II, il cui ritratto è nel medaglione che la donna tiene in mano rivolgendolo allo spettatore. Vittoria, ritratta a tre quarti di figura in elegante abito di velluto nero, ha sul capo un velo di color oro che probabilmente, come sembra plausibile, indica, come suggerisce Araldo, «ricchezza di famiglia» o, in maniera più suggestiva, potrebbe essere correlato, per il suo significato, al flammeum di cui tratta Morato (le nozze tra i due si sono celebrate il 26 gennaio del 1548).
La Bella di Tiziano130 (fig. 9) veste invece un suntuoso abito bianco, taneto e turchino e, alla luce della lettura proposta da Araldo, è possibile che tali colori alludano alla purezza, alla castità, alla cortesia e al «pensiero elevato» dell’effigiata, alla lodevole capacità cioè di innalzare la mente alla contemplazione delle cose celesti. La donna veste anche il castaneo che, come si è visto, alluderebbe alla fierezza131.
Rossa è invece la fascia bordata d’oro indossata dal duca sopra l’armatura nel ritratto oggi conservato agli Uffizi realizzato da Federico Barocci nel 1572 forse in memoria della combattuta battaglia di Lepanto (fig. 10). Bene può applicarsi a questo ritratto la valenza militare del rosso suggerita da Rinaldi, per il quale, come si ricorderà, il colore denota vendetta132.
Nonostante non ci si trovi ancora di fronte a un ritratto maturo del principe roveresco (per Araldo la virilità corrisponde al periodo dai 30 ai 50 anni), non per questo, considerando la partecipazione alla vittoriosa battaglia, ci si deve astenere dall’attribuire questo significato al dipinto.
I valori simbolici del rosso, così come degli altri colori, non possono essere applicati in maniera automatica e indistintamente a tutte le opere d’arte: è necessario in questo senso un correttivo che contestualizzi il significato dei dati cromatici.
Significati militari potrebbero non essere calzanti, ad esempio, per la lettura cromologica del ritratto di un bambino. Si vedano, a tal proposito, i ritratti del figlio dell’ultimo duca di Urbino, Federico Ubaldo, nato il 6 maggio del 1605 dall’unione con Livia della Rovere: uno, a figura intera e realizzato da Alessandro Vitali nel 1607 (fig. 11); l’altro, insieme con Lavinia della Rovere, del 1610 e attribuito a Terenzio Terenzi, detto Rondolino (fig. 12)133.
Araldo, come già preannunciato, spiega che sui fanciulli il rosso indicherebbe «desiderio di giocare», predisposizione evidentemente dovuta all’età. Non è quindi un caso che il giovane, nel ritratto del Vitali, tenga in mano palla e racchetta134. L’abito rosso è, inoltre, portato anche da Francesco Maria II della Rovere, ritratto ancora bambino insieme al padre Guidobaldo II (fig. 13)135.
L’analisi cromologica di questi pochi ritratti è forse sufficiente a dimostrare l’estrema utilità della letteratura dedicata al significato dei colori per la lettura dei dipinti, in particolare nel caso della raccolta roveresca dove l’azione interpretativa può verificarsi alla luce della cultura contenuta ed espressa dai volumi della Libraria del suo dottissimo proprietario. Appare utile infatti a dimostrare che, a partire dallo scadere del Cinquecento, è finalmente individuabile una “iconologia dei colori” che va al di là del significato puramente simbolico circoscritto all’ambito del vestiario.
Romana Sammern riferendosi al Trattato (1584) di Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1592) – pure presente nella Libraria durantina- ha usato l’espressione “iconologia del colore”136. L’aspetto interessante del terzo libro di Lomazzo (De’ colori) consiste in effetti proprio nell’aver considerato i colori in quanto significanti di per sé, non limitando l’interpretazione cromatica esclusivamente agli abiti. Nonostante l’aspetto più indagato dell’opera sia legato alla preparazione materiale del colore, alla tecnica migliore per ciascuno (Della necessità del colorire), e al suo uso più proprio (Della virtù del colorire), il capitolo XI, De gl’effetti che causano i colori, sembra invece anticipare la contemporanea attitudine ad individuare nel colore una percezione psichico-emotiva, poiché «tutti i colori hanno una certa qualità diversa frà di loro, causano diversi effetti, à chiunque li guarda»137.
Dunque, ad esempio, i colori «neri […] e oscuri» generano nell’animo tristezza e «melancolia», i rossi inducono invece a fierezza e ardire, «svegliando la mente per l’occhio», mentre altri rendono «soavità e giocondità»138.
Al termine di questo percorso – rifuggendo ogni determinismo – è possibile confermare, quindi, che la conoscenza della storia dei colori e dei loro significati è “attrezzatura culturale” utile e necessaria alla Storia dell’arte.
Testi come quelli di Araldo, Morato, Dolce, Rinaldi e Lomazzo autorizzano a considerare il colore come elemento parlante, portatore di significati sedimentati nella tradizione, ma anche generatore di libere associazioni da valutare in relazione ai tempi e ai contesti, come l’esercizio sui ritratti rovereschi ha inteso dimostrare.
NOTE
1 Si rimanda in merito a SERRAI 2009 e MEI-PAOLI 2008, pp. 9-87.
2 Il progetto, condotto in collaborazione con la Biblioteca Universitaria Alessandrina, è l’evoluzione della ricerca di Ateneo 2018 Roma e l’eredità culturale del ducato di Urbino prima e dopo la devoluzione del 1631: artisti, opere d’arte, biblioteche. I primi risultati sono stati presentati nel corso del Convegno Internazionale di Studi dal titolo: L’immaginario della caccia e degli animali nella Libraria e nelle collezioni di Francesco Maria II della Rovere. Analisi, contesti, modelli, confronti, tenutosi il 30 e il 31 gennaio 2020 presso la Sapienza Università di Roma.
3 DI MARTINO 2012, p. 5.
4 La numerazione delle sottoscansie non compare in alcun indice o catalogo della biblioteca, ma è stata attribuita nel corso del progetto per una puntuale inventariazione di ogni singola immagine. Cfr. SANETTI 2018-2019.
5 SABBA 2012, pp. 86-106 e La Galleria del diletto 2012.
6 Si rimanda a SABBA 2012. La questione è tuttora dibattuta ed è in corso un riesame approfondito della sottoscansia nell’ambito del progetto “Immaginare i saperi”.
7 Poiché l’edizione della Libraria risulta dispersa, ossia né giunta alla Biblioteca Universitaria Alessandrina, né rimasta ad Urbania, per fini di studio si è consultata l’edizione curata da Domenico Niccolino, data alle stampe nel 1565 a Venezia.
8 MORATO 1559 [BUA XV c 1 9]. L’editio princeps viene stampata a Venezia nel 1535 presso Giouan’Antonio de Nicolini da Sabio.
9 DOLCE 1565. L’edizione presente nella Libraria ducale si trova oggi presso la Biblioteca comunale di Urbania: sebbene infatti sotto Alessandro VII i volumi impressi siano confluiti nella Biblioteca Universitaria Alessandrina e i codices manoscritti destinati alla Biblioteca Apostolica Vaticana, circa 500 volumi a stampa sono rimasti nel Fondo antico della Biblioteca di Urbania.
10 RINALDI 1584 [BUA XIV c.18 2].
11 Cfr. CORSO-MUGELLESI-ROSATI 1997 e BRUNELLO 1968.
12 PORZIO 1548. L’editio princeps dell’opera è stata pubblicata a Parigi nello stesso anno. Sono note altre due edizioni, l’una veneziana risalente al 1560 e l’altra patavina del 1575.Sull’attribuzione ad Aristotele permangono dubbi: già Simone Porzio aveva proposto di individuare l’autore in Teofrasto, ipotesi accolta dagli studiosi e sostenuta in particolar modo da Goethe. Oggi, la critica è incerta sull’attribuzione a questi o ad un altro allievo di Aristotele, Stratone. Per una disamina esaustiva della questione si rimanda a FERRINI 1999, pp. 9-12.
13 Per i “rapporti di prossimità” dello studio dei colori con le diverse discipline (filosofia, matematica, fisiologia, storia naturale) si possono rileggere le pagine della Farbenlehre di Goethe (GOETHE 2008, pp. 177-187. Si veda anche GAGE 2001, pp. 7-10.
14 Cfr. BOSCAROL 2021, pp. 5-25.
15 L’opuscolo “De coloribus” di Roberto Grossateste (GROSSATESTE 1514) è rilegato insieme ad altri nell’edizione curata da Ottaviano Scoto a Venezia nel 1514. Dal Ms. 50, c. 399 v, si evince l’originaria collocazione di tale raccolta nella Scansia 33, denominata “In Aristotelis Organum et Aliorum Logicam”, ma l’edizione oggi in BUA [XIII f.10 12] non riporta sul frontespizio la consueta sigla “Ur”, rendendo incerta la sua attribuzione alla collezione del duca. Il De coloribus di Guido Antonio Scarmiglioni (SCARMIGLIONI 1601), nell’edizione data alle stampe a Marburgo e curata da PaulEgenolff nel 1601, trovava invece una collocazione nella Scansia 36, “Opera Varia totius Philosopiæ”, come annotato nella c. 426 v del Ms. 50, ed è oggi in BUA [C b 43 Cb].
16 TELESIO 1528, p. 3 r.
17 Il Libellus de coloribus del Telesio è presente nella Biblioteca Alessandrina in quattro differenti edizioni: quella del 1528 (BUA XIV f4 22.7), quella del 1537 (BUA O b 178), appartenente al Fondo Urbinate, quella 1541 (BUA O f. 26 f2) e, in ultimo, quella del 1563 (BUA AE b 26.1), anch’essa del Fondo Urbinate.
18 Ms. 50, c. 125 r.
19 Ms. 50, c. 72 r colonna A.
20 Questa edizione del De re navalia di Lazare de Baïf si trova in BUA con collocazione O b 178.
21 ACCIARINO 2018, pp. 111-140.
22 DE BAÏF 1536, pp. 55-63.
23 DE BAÏF 1537, pp. 164 e 181.
24 L’edizione curata da Damiano Zenaro ed edita a Venezia nel 1590 trovava collocazione nella Libraria nella Scansia n. 60, Instructiones Cons et Relationes Diuersæ, sottoscansia“Instructiones” ed è oggi presente in BUA con segnatura RARI 68. Cfr. VECELLIO 1590.
25 L’autore affrontava studi cromatici anche nel Ms. 95, che in quattro pagine raccoglie un elenco di novantaquattro colori nella loro nomenclatura latina. Si rimanda a PUGLIANO 2015, pp. 358-396.
26Sui trattati artistici presenti nel catalogo della Libraria roveresca si veda CASADEI 2019-2020. I trattati sulla pittura fornivano spesso ricettari per ottenere le cromie, miscelare e utilizzare i vari pigmenti. Cfr. per esempio FREZZATO 2009 in cui viene pubblicato il Libro dell’arte di Cennino Cennini. L’autore indica i modi di ottenere i neri, i verdi, i rossi e quasi tutti i colori (si rimanda a MAZZAFERRO 2015, pp. 342-357). Leon Battista Alberti nel De Pictura offre informazioni di carattere tecnico-pratico sul miglior modo di maneggiare i colori, con l’intento pure di dare indicazioni per raggiungere un’armonia cromatica in pittura (si veda GRAYSON 1980). Il Dialogo di Pittura (1548) di Paolo Pino (PINO 1548) non si sofferma sui colori nello specifico, quanto più sulla terza ed ultima parte della Pittura, “Il Colorire” (cfr. FALABELLA 2000, pp. 45-49). Allo stesso modo, il Disegno di Anton Francesco Doni (DONI 1549) non ha lo scopo di fornire delucidazioni circa la simbologia cromatica, quanto invece, nella sezione intitolata Di quante spetie di color si trovano nel dipingere di individuare la duplice sorgente dei colori, naturali e artificiali, combinando i quali si ottengono un’infinità di colori composti (cfr. PEPE 1970). Invece, per quanto concerne il Trattato de’ colori (1584), Giovanni Paolo Lomazzo dedica il libro terzo al Colore, scrivendo capitoli sui colori nero, bianco, rosso, paonazzo, giallo, verde, turchino, oltre che divenire uno dei primi a spiegare gli effetti che causano i colori «perché tutti i colori […] causano diversi effetti a chiunque li guarda» (cfr. LOMAZZO 1844, pp. 319-358).
27 PORZIO 1551, p. 96. Cfr. CIAN 1894, p. 22.
28 Cfr. EQUICOLA 1525. L’autore (Frosinone, 1470 – Mantova, 1525) dedica al quinto dei sei libri a la couenientia de colori, conferendo dignità alle sue parole facendo costante riferimento alla Storia greca e romana. Per esempio, riprende Cicerone sostenendo che il «color candido» è proprio degli Dèi e Plutarco per affermare invece sia il colore che vestono le donne durante il lutto. Non manca un riferimento ai colori in relazione all’amore: per un’amata diversa, si usano colori differenti «se non in tutto l’habito in qualche parte». Ad esempio, scrive: «Sappia la flegmatica de verde, bianco e mixto delectarse: la colerica di tutti colori che al roscio in qualche modo appartengono: la sanguigna celeste, azuro, morello, chiaro, e oto delecta, el verde non li dispiace; la melanconica de negro, tane e di quelli colori che a questi sono propinqui». Cfr. CIAN 1894, p. 24. Sullo Specchio d’Amore. Dialogo di Messer Bartolomeo Gottifredi nel quale alle giovani s’insegna innamorarsi, edito a Venezia nel 1547 si rimanda all’Appendice 1 (infra). Per la modalità di comunicazione dei sentimenti di Filena, protagonista dell’opera di Niccolò Franco, attraverso il differente uso dei colori nelle vesti cfr. SIMIANI 1894, pp. 126-144 e E. Impieri, “Nicolò Franco prosatore e poeta tra innovazione e tradizione”, tesi di laurea magistrale in lingua e letteratura italiana, Università di Pisa, AA 2012-2013, relatore Giorgio Masi, correlatrice Angela Guidotti. Si rimanda a ZONTA 1912.
29 Si rimanda a V. CIAN 1894, pp. 26-29. Cfr. Appendice 2 (infra).
30 Cfr. CELEBRINO 1535, cc. 2 r e v.
31 CIAN 1894, p. 35. Si rimanda all’Appendice 3 (infra).32[1]
32 Si veda Appendice 5 (infra). Cfr. MACIOCE 2018a, pp. 261-270; MACIOCE 2016b, pp. 45-78. Si veda Appendice 4 (infra) per L’Interpretatione de colori da incerto auttore composta et Nuovamente posta in luce, Modena, presso eredi di Cornelio Gabaldini, 1567.
33 OCCOLTI 1568, cc. 38 v-57 r.
34 CIAN 1894, pp. 33-34.
35 BAGGIO 1986, p. 91 e QUONDAM 2019, pp. 57-74. Per quanto concerne l’Ariosto, si rimanda a SEGRE 1990, p. 191: «[…] Chi con colori accompagnati ad arte/ letizia o doglia alla sua donna mostra;/ chi nel cimier, chi nel dipinto scudo disegna Amor, se l’ha benigno o crudo».
36 Cfr. VINCIGUERRA 1938, pp. 102-103 (Appendice 6 infra). Si rimanda a GIANCOTTI 1998.
37 CALLI 1595, p. 9. L’autore si esprime anche sulla difficoltà di trovare l’aspetto dell’effettivo e corretto rimando cromatico, consapevole che «le divisioni specifiche di essi colori son molte et in diverse maniere da gli autori distinte» (cfr. ivi, p. 27).
38 Sui sonetti degli autori elencati si rimanda ad Appendice 7 (infra). Cfr. BAROCCHI 1973, pp. 2339-2343.
39 Non a caso, tracce di questo codice cromatico sono individuabili anche in opere letterarie che riguardano più da vicino l’arte della guerra, per esempio l’Orlando Furioso (1516). Per i colori nei blasoni nel Medioevo cfr. GAGE 2001, pp. 79-91; PAPI 2000 e OSBORNE 2019, pp. 17-62.
40 Il Blasone di Jean Curtois viene pubblicato a Parigi per opera di Pierre Le Caron nel 1495. In merito al tema dei colori nell’araldica si veda BASCAPÈ-DEL PIAZZO, 1983, p. 16. Per i dati biografici sull’autore si rimanda invece a LAFOND 1969, pp. 195-241. Per un breve compendio sul simbolismo dei colori nella cultura francese contemporaneamente a Sicillo Araldo si rimanda a HUIZINGA 1961, pp. 386-390. Per la complessa questione attributiva si rimanda GAGE 2001, pp. 69-79. e OSBORNE 2019, pp. 3-8.
41 Cfr. OSBORNE 2019, pp. 6-7: «Contile had travelled widely, meeting for example Alciato in Pavia in the mid-1540s and Dolce in Venice in 1558. Like many other cinquecento pubblications, his book cities numerous pre-existing sources, including those by Aristotele, Cicero, Virgil and Ovid, as well as the Italian edition of Corrozet’s Trattato dei colori nelle arme». Inoltre, si afferma che Contile sia stato influenzato anche dal Ragionamento sopra i motti, e disegni d’arme, e d’amore di Paolo Giovio (1555).
42 L’espressione «galatei dei colori» è nata in occasione della mostra bibliografica, allestita nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e a cura di Manlio Brusatin, in occasione del Carnevale del 2013 (Cfr. BRUSATIN 1999).
43 Può tornare utile, a proposito della corrispondenza nomenclatura-tinta effettiva, prendere visione della tavola cromatica in WALLER 1986-1987, pp. 24-32 e OSBORNE 2019, pp. 356-360.
44 ARALDO 1565, c. 3 r.
45 Si vedano i capitoli L’habito morale dell’huomo per i colori e Dell’habito morale di una donna, cc. 27 v – 29 r.
46 RINALDI 1584, p. 9.
47 MORATO 1559, non cartulato, [p. 5].
48 DOLCE 1565, c. 4 r.
49 MORATO 1559, non cartulato, [p. 7]
50 Ivi, [pp. 6-7]. Cfr. DOLCE 1565, cc. 19 v -22 v: il Dolce concorda con l’interpretazione adducendo, inoltre, che i Poeti chiamano il verde «Prasino» e i Tintori «Porro Verde».
51 Cfr. RINALDI 1584, p. 15.
52 Ivi, pp. 11-14.
53 ARALDO 1565, cc. 11 r, 21 r, 29 v e 31 r.
54 DOLCE 1565, c. 16 r.
55 MORATO 1559, non cartulato, [p. 7-9]. Per il significato della parola “stipite” si rimanda a Vocabolario degli Accademici della Crvsca con tre indici delle voci, locuzioni, e prouerbi Latini, e Greci, posti per entro l’Opera, Venezia, presso Giouanni Alberti, 1612, p. 850.
56 Sul verdegiallo si rimanda a MACIOCE 2018, p. 268.
57 MORATO 1559, non cartulato, [p. 36].
58 ARALDO 1565, c. 19 v.
59 RINALDI 1584, pp. 17-18.
60 Cfr. DOLCE 1565, c. 35 r e MORATO 1559, non cartulato, [p. 37]. Si rimanda a DE MÉRINDOL 1996, p. 60: «les livre peut refléter une situation qu’il faut déterminer: une relation avec une personne, une famille, une dynastie, avec un group de livres ou avec la bibliothèque proprement dite. Les couleurs peuvent refléter un choix suivant des critères propres au propriétaire, au donateur, au destinataire […]. Les couleurs jouent un rôle fundamental dans le décor des demeures, dans les costumes et dans les actes les plus quotidiens. Il serait étonnant que les couleurs des livres, notamment à la fin de l’époque médiévale, échappent totalement à ces usages». È dunque evidente che dal Medioevo il colore inizia a funzionare come linguaggio comunicativo recepito dalla quasi totalità della popolazione. Il lessico cromatico diventa sempre più pervasivo, coinvolgendo molteplici e differenti ambiti come l’editoria: persino le rilegature dei libri erano pensate e realizzate in questi termini.
61 DOLCE 1565, c. 14 v.
62 ARALDO 1565, c. 7 r.
63 RINALDI 1584, p. 22. Il rosso è indossato anche dai Ministri che non devono temere di spargere il sangue di malfattori e delinquenti contro cui amministrano la legge, motivo per cui i pittori antichi dipingevano il volto della Giustizia di color vermiglio. Inoltre, il libro dei Giuristi era ricoperto di rosso cuoio. Cfr. ARALDO 1565, c. 7 v e MORATO 1559, non cartulato, [p. 13].
64 Cfr. DOLCE 1565, cc. 22 v -24 r. e RINALDI 1584, p. 19-20.
65ARALDO 1565, cc. 7 v – 8 r e 29 v – 30 v e 32 v.
66 MORATO 1559, non cartulato, [pp. 10-15]. Anche gli stivaletti di Diana e Venere venivano tinti di rosso poiché in alcun modo si sarebbe voluta offendere le dee alla vista del sangue, qualora fossero state ferite durante l’inseguimento di una fiera.
67 ARALDO 1565, c. 8 r.
68 RINALDI 1584, p. 21.
69 MORATO 1559, non cartulato, [p. 13].
70ARALDO 1565, cc. 22 v, 29 v, 31 r e 33 r. Sul porpora si rimanda a MACIOCE 2018, pp. 263-264.
71 DOLCE 1565, c. 14 v.
72 ARALDO 1565, cc. 24 v, 30 r, 31 r – 33 r.
73 Cfr. ARALDO 1565, cc. 31 v e 33 r; DOLCE 1565, c. 15 r; MORATO 1559, non cartulato, [p. 34] e RINALDI 1584, pp. 24-25.
74 ARALDO 1565, c. 27 r.
75 DOLCE 1565, cc. 11 r e v, 14 r, 15 r – 15 v e 17 v.
76 MORATO 1559, non cartulato, [p. 30]
77 Ivi, non cartulato, [pp. 29-31]: «Il Giallo ha sua speranza rinascente». Si rimanda a MORETTI 2011, pp. 29-64.
78 RINALDI 1584, pp. 28-29
79 DOLCE 1565, c. 15 v: «Il colore Lutheo non è alcuna cosa, che tanto si dimostri, quanto il fior di Caltha, e di Genisto, e parimenti il vitello dello vuouo. È molto simile al croceo, che è il colore del Zaffrano; quello che dagli antichi fu detto Flameo, perche l’vsaua la moglie del Flamine Sacerdote». Cfr. MORATO 1559, non cartulato, [p. 30]. Sul «rancio» cfr. RINALDI 1584, p. 19 e DOLCE 1565, cc. 13 r e v e 15 v.
80 ARALDO 1565, cc. 29 v, 30 v e 33 r.
81 Ivi, cc. 13 r – 15 v; 19 v – 20 r; 21 r – 21 v; 32 v e 33 r.
82 Cfr. DOLCE 1565, cc. 34 r – 43 v; MORATO 1559,non cartulato, [p. 35] e RINALDI 1584, p. 50.
83 ARALDO 1565, cc. 4 r– 5 r.
84 RINALDI 1584, p. 52.
85 Si rimanda a Livio, Ab urbe condita, liber IX, XL e MORATO 1559, non cartulato, [pp. 22-23], [25-26] e [28]; DOLCE 1565, cc. 12 r e 29 r – 33 r.
86 ARALDO 1565, c. 30 r.
87 Virgilio, Eneide, liber I, verso 292.
88 MORATO 1559, non cartulato, [p. 27] e [29]; RINALDI 1584, pp. 31-32.
89 ARALDO 1565, cc. 6 r, 19 r, 29 v, 30 r e 32 v.
90 Cfr. DOLCE 1565, cc. 12 r e 16 r e ARALDO 1565, cc. 18 v e 29 v.
91 ARALDO 1565, cc. 6 r, 12 v, 13 r e 13 v.
92 RINALDI 1584, p. 54: «Di Gelosia l’Argento, e di dolore». Già nell’Ode della gelosia (fr. 31 Voigt) di Saffo si legge del pallore associato al tormento amoroso. Quando l’amante si trova al cospetto dell’amata, non riuscendo a «sciogliere il nodo alla lingua, subito per le vene ci scorre al cuore vn ghiaccio, onde ci sentiamo per amore venire meno, e in noi causarsi quella pallidezza».
93 DOLCE 1565, c. 34 v. Cfr. MORATO 1559, non cartulato, p. 42 e RINALDI 1584, pp. 6 e 58.
94 ROMULO 1595.
95 Cfr. MORATO 1559, non cartulato, [pp. 34-35] e DOLCE 1565, c. 34 v. Sul colore turchino indossato dai crocigeri si rimanda a LEONI 1599, c. 20 v: «Si commette adunque espressamente per detta Costitutione, che ciascuno di dett’Ordine vesta l’habito Monachino: il che dalli prattici et intendenti si piglia per certo panno, ò rascia di colore azurro, ò turchino, che nel paese specialmente della Lombardia si chiama volgarmente Moneghino».
96 Cfr. MORATO 1559, non cartulato, [p. 35], RINALDI 1584, pp. 26-27: «L’alto pensiero altrui il torchin dimostra». Sull’importanza di Pesaro, e in generale di Marche, Umbria e Toscana, come centri di produzione tintoria e tessile particolarmente specializzati nella produzione dei blu si rimanda a TORTA 2020/2021, pp. 109-113. Sui colori nella seta si rimanda a CORSUCCI 1581, p. 95: «Hora mi par conveniente ragionar dei colori […] con pochi significati loro, per non mi aderire al capriccio di Fulvio Pellegrino Morato, il quale si sforza […] dargli significati contra la commune opinione».
97 DOLCE 1565, c. 9 r – 10 v. Sul colore glauco si rimanda a MORETTI 2011, pp.29-64.
98 ARALDO 1565, cc. 29 v – 30 r e 32 v. Cfr. MORATO 1559, non cartulato, [p. 32], che inserisce il «perso» nella trattazione del «taneto»: «questo colore è il perso, come i Toscani chiamato, benche altri altrimenti sentano, ma io sopra verdi panni sanguigni oscuri, o persi». S. Araldo, Trattato dei colori…Op. cit, c. 23 v: il perso è «colore che si avvicina assai al torchino, ma è più chiaro».
99 RINALDI 1584, p. 38-39. Sulla differenza tra leonato e taneto e per il loro aspetto si rimanda a MACIOCE 2018, pp. 268-270.
100 MORATO 1559, non cartulato, [pp. 31-32].
101 ARALDO 1565, cc. 26 v – 27 r: «[…] si veggono piu in panni di lana, ch’altramente, e fra gl’altri il taneto, che tira al bianco, è tanto scolorito che par quasi che tiri nel giallo, onde significa contritione de gli errori passati, innocentia finita, giustizia intorbidata, e gioia simulata; il taneto che tira al rosso e’l taneto comune, e significa gran cuore, e valor finto, pensieri asprissimi, e cordoglio pieno di furore; il tanto violeto è colore molto vago, e si porta volontieri come molto grato, e piacevole, e significa amore travagliato, lealtà falsa, e cortesia semplice. Il taneto oscuro è composto di taneto, e nero, e significa dolore, fantasia, e mestizia meschiata di consolatione […] Il taneto berettino significa poca speranza, e consolatione del tedio».
102 Ivi, cc. 19 r e v, 20 v, 22 r, 23 r, 23 v, 24 r e 24 v.
103 DOLCE 1565, cc. 12 v – 13 r. Inoltre, sul perché della denominazione pullo si legga ivi, c. 13 r: «Credo io, che ella venga per diminuitone da puro; come da questa voce Rara, che è vna sorte di veste, che vsauano gli antichi si sa Lalla, da opera, opella, che vuol dir picciola opera; e da terra tellus: in guisa che è detta lana pulla, perche ella sia pura, cioè naturale, non tinta di altro colore, ma contenta del suo».
104 MORATO 1559, non cartulato, [p. 33].
105 RINALDI 1584, pp. 44-46.
106 DOLCE 1565, c. 33 r.
107 MORTO 1559, non cartulato, [p. 33].
108ARALDO 1565, c. 24 v e DOLCE 1565, c. 12 v.
109 ARALDO 1565, cc. 19 r, 20 v, 21 r, 22 r, 23 r, 24 r – 24 v. Sui significati e sulla varietà del berettino si rimanda a MACIOCE 2018, pp. 262-263.
110 Cfr. MORATO 1559, non cartulato, [p. 32] e RINALDI 1584, p. 41. A riprova di ciò, Rinaldi più avanti scrive: «la innamorata Bradamante, volendo significare al suo Ruggiero, che quantunque esso si fosse discosto per tante miglia, e quantunque l’amorosa passione, che perciò patiua, la facesse (quasi amorosa Fenice) morire, e rinascere mille volte al giorno, non dimeno haueua l’animo stabilito, e fermo di amarlo, e riuerirlo sempre, come suo Signore, ben pregandolo che ancora lui li fosse fedele […], ornò di questo colore il cauallo Frontino, che li mandava».
111 La vicenda dei due amanti è narrata anche nelle Metamorfosi di Ovidio. Si rimanda a RINALDI 1584, p. 41. I frutti maturi del gelso sono, infatti, «carichi di questo morello colore».
112 RINALDI 1584, p. 43.
113 MORATO 1559, non cartulato, [pp. 32-33]. Sulla difficoltà di identificarne una tinta specifica si rimanda a MACIOCE 2018, p. 266.
114 DOLCE 1565, c. 33 r e MORATO 1559, non cartulato, [p. 34] e RINALDI 1584, pp. 6 e 46. Tuttavia, il mischio denota anche fermezza. Cfr. MACIOCE 2018, p. 267.
115 DOLCE 1565, cc. 25 v – 26 r.
116 MORATO 1559, non cartulato, [pp. 15] e [20]
117 DOLCE 1565, cc. 25 v e 26 r. Cfr. MORATO 1559, non cartulato, [p. 17]. Ancora nel linguaggio corrente si usa l’espressione “scrivere il nome sul libro nero” a indicare una persona guardata con sospetto.
118 Cfr. ARALDO 1565, c. 10 r, MORATO 1559, non cartulato, [p. 22] e RINALDI 1584, p. 34. Infatti, il verso del sonetto di Rinaldi recita: «Co’l duol d’vn core il Ner di pari giostra», p. 37.
119 ARALDO 1565, cc. 22 v – 23 r. Per gli altri accostamenti di colore si rimanda a ivi, c. 23 r.
120 Ivi, cc. 29 v, 31 r e 33 r.
121 Cfr. CORDIÉ 1991, p. 123; MACIOCE 2016, p. 46. La prima edizione de Il Cortegiano fu stampata a Venezia presso Aldo Manuzio nel 1528, mentre l’autore si trovava in Spagna (SOLETTI 2010) e QUONDAM 2019. Si veda Appendice 6 (infra).
122 Il 13 ottobre, nella cerimonia di creazione a duca di Urbino, dopo la morte di Guidobaldo II, Francesco Maria II era «vestito con un rubone di damasco bianco con il strassino, e con una corona, in testa, bianca, ornata di perle, con certi fascetti che li pendevano dietro alle spalle, e con una pelliccia bianca intorno alle spalle». Cfr. UGOLINI 2008, p. 379.
123 Il ritratto mi è stato segnalato da Massimo Moretti ed è pubblicato con la nuova attribuzione in CAVAZZINI 2021.
124 MORATO 1559, non cartulato, [p. 35] e RINALDI 1584, p. 26.
125 Sui ritratti si veda la seguente bibliografia: LUCHETTI 2019, pp. 99-111 e SEMENZA 2005, pp. 69-75.
126 ARALDO 1565, c. 27 v
127 Ivi, cc. 27 v – 28 r.
128 Ivi, cc. 28 r – 29 v.
129 LUCHETTI 2019, pp. 99-111.
130 Realizzato tra il 1536 e il 1538, il dipinto è oggi conservato presso Palazzo Pizzi a Firenze. Si legga SEMENZA 2005, p. 84: La Bella era stata dapprima identificatacon Eleonora della Rovere, ma è stata, invece, restituita all’anonimato perché in una lettera Francesco Maria I della Rovere la descrive al Leonardi come «la donna che ha la veste azzurra».
131 È possibile proporre letture cromologiche anche di altri autori che si sono espressi sull’argomento. Si rimanda a tal proposito ad una lettura del dipinto fatta seguendo l’interpretazione di Coronato Occolti in MACIOCE 2016, p. 56. Inoltre, la funzione di rendere eloquenti le virtù femminili ad un solo sguardo veniva svolta anche dalla cosmesi. In quest’ambito, illuminante il Dialogo delle bellezze delle donne (1541) di Agnolo Firenzuola (1483-1543), che fornisce la più completa e dettagliata descrizione dell’ideale di bellezza femminile – sulla scia dell’Ars Amatoria di Ovidio- nella letteratura moderna. Egli individua otto colori, tre per gli occhi (biondo, lionato e negro) e i restanti per labbra e pelle (rosso, candido, bianco, vermiglio e incarnato). Si rimanda a SAMMERN 2016, pp. 109-139.
132 ARALDO 1565, c. 20 r. Sulla varietà dei significati del rosso accompagnato ad altri colori nelle livree si rimanda a ivi, cc. 20 r – 20 v.
133 Ormai rassegnato all’idea di non avere eredi, Francesco Maria nutre nei confronti del figlio una particolare devozione: di Federico Ubaldo vengono prodotti un numero elevato di ritratti, con l’intento quasi di registrarne la crescita. Sulla particolare devozione che nutriva Francesco Maria nei confronti del figlio si rimanda a MORETTI 2013, pp. 18-131 e BERNARDINI 2018, pp. 109-114.
134 ARALDO 1565, c. 32 v. Cfr. FELIZZOLA 2020-2021.
135 Sul “Ritratto di Guidobaldo II e Francesco Maria II della Rovere” si rimanda a PALLUCCHINI 1969, p. 90 e WETHEY 1971, p. 137.
136 LOMAZZO 1585 [BUA E m 3]. Cfr. SAMMERN 2016, pp. 109-139: «[Lomazzo] discusses an iconology of colors, which includes their power to convey and affect passions based on the relation between planets, colors and passions». Anche OSBORNE 2019, pp. 334-355.
137 Ivi, pp. 201-202.
138 Ibidem.
APPENDICE, FONTI E BIBLIOGRAFIA CRITICA