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Gli unici che andranno in cielo sono i collezionisti: intervista a Pierre Rosenberg

Parigi, fine marzo. Le stagioni si alternano tutte nello stesso giorno, sotto a quel cielo mutevole che si apre e chiude in continuazione come il mantice di un organetto in festa. La Senna scorre limacciosa, mentre la flèche di Notre-Dame è ormai quasi risorta dalle sue ceneri. Siamo in Francia per incontrare Pierre Rosenberg, il terzo dei maestri della nostra rubrica di interviste. Storico dell’arte già Presidente-Direttore del Louvre (1994-2001), membro della prestigiosa Académie Française, tra i massimi esperti di Poussin, La Tour e molti altri celebri pittori, Rosenberg è un’istituzione vivente, tra i più autorevoli e prestigiosi studiosi francesi e internazionali. L’appuntamento con il Professore è alle 10 nel suo appartamento. Aspettiamo l’ora esatta per avvertire della nostra presenza annunciandoci al citofono. Nel giardino esterno alla casa alcuni segni dell’italiomania del professore: “TRAGHETTO PER S. MARCO” “TRAGHETTO PER RIALTO” sono i due cartelli gialli affissi ai muri, forse acquistati in qualche mercatino nei suoi consueti soggiorni in Laguna. Varcando la soglia d’ingresso si ha l’impressione di entrare in un luogo interamente votato alle arti. Sulle pareti l’affastellamento di dipinti è da quadreria settecentesca, i mobili straripano di libri, carte, vetri di murano e altri oggetti artistici. Sull’attaccapanni all’ingresso l’iconica sciarpa rossa, quasi un attributo iconografico del maestro, che ci guida tra le stanze conducendoci nello studio, dove si accomoda sul divano, sul quale sta rincantucciato il suo amato gatto. Alle sue spalle una Pietà di Simon Vouet gli fa da fondale scenico. Iniziamo la nostra conversazione.  

Foto di Gianni Nunno.

Chi è Pierre Rosenberg? Come si definirebbe?

È difficile rispondere a questa domanda; direi che è qualcuno che ha voluto fare tre mestieri diversi, ed è possibile che non sia riuscito a farne nessuno dei tre. Io sono un funzionario di stato, ho fatto tutta la mia carriera al Louvre, dove ho iniziato dalle funzioni più semplici fino a ricoprire il ruolo di Presidente-Direttore; poi sono uno studioso, specializzato nella pittura del Seicento, sui disegni e sulla pittura francese soprattutto di questo secolo, ma anche il Settecento naturalmente. Sto chiudendo proprio in questo periodo il mio ultimo lavoro, il catalogo ragionato dei quadri di Poussin che uscirà nei primi mesi del prossimo anno, 10 milioni di battute!

Il terzo mestiere è il collezionista, che ha ancora l’ambizione di comprare, perché nel 2026 la mia collezione andrà via al nascente Musée du Grand Siècle dedicato al Seicento francese, e non voglio ritrovarmi in una casa vuota. E dovrei aggiungere una quarta cosa, che è l’Académie Française. Io sono un vecchio accademico e gli storici dell’arte che rientrano in questa accademia in Francia sono pochissimi.

L’interesse per le arti fu precoce?

I miei parenti vengono dalla Germania e sono arrivati qui nel 1933 per via del nazismo, sono vissuti poi sempre qui e non hanno più parlato tra loro in tedesco. Dopo la guerra iniziarono a portarmi per i musei. Ricordo di aver visto le mostre sui capolavori di Vienna, Monaco di Baviera e Berlino che viaggiavano attraverso l’Europa liberata. Questi credo siano stati i cominciamenti. A quel punto iniziai gli studi all’Ecole du Louvre, dove una importante egittologa voleva che divenissi un egittologo anche io, ma virai sulla pittura.

Qual è stata la svolta nel suo percorso di studioso?

Io feci la mia tesi sui quadri francesi e italiani del Seicento e Settecento del Museo di Rouen; in questi anni, siamo negli anni Sessanta, il Louvre fece una splendida mostra su Poussin, curata da Sterling e Blunt, e avevano promesso di esporre la mostra anche a Rouen, zona di nascita di Poussin. Passò del tempo e procrastinarono, rendendosi poi conto di non avere nessuno che potesse lavorarci, così lo chiesero a me. La mostra si fece nel 1961, “Poussin et son temps” di cui mi occupai del catalogo. Questo fu il mio ingresso nel mondo del Seicento francese.

Chi sono stati i suoi maestri?

È difficile rispondere a questa domanda. Quando ero giovane la storia dell’arte in Francia versava in una condizione disperata, non c’era nessuno che insegnava la storia dell’arte in senso moderno. Le biblioteche erano poverissime, bisognava andare a Londra al Courtauld per fare una scheda. Per questo motivo in un certo senso i miei maestri sono stati pochi. Ho però conosciuto bene e anche da vicino André Chastel, un personaggio chiave nell’ingresso della Francia nella storia dell’arte. Chastel aveva dei pregiudizi, per lui la storia dell’arte si faceva all’università e non nei musei. Quando gli fu diagnosticato un cancro mi avvicinai molto a lui, lo andavo a trovare tutti i sabato con mia moglie per chiacchierare, e conobbi così il Chastel più umano. Affrontò la morte in faccia, come faceva un romano dell’antichità. Rimasi molto colpito. Dunque non posso dire di essere un suo allievo, ma è una persona alla quale rimango ancora molto legato. Attraverso Laclotte conobbi anche Longhi, che veniva qui verso la fine degli anni Cinquanta anche per vedere un po’ il mercato. Aveva qui un amico, un piccolo mercante d’arte, con il quale giocava a poker tutta la notte fino alla mattina, quando Longhi, dopo aver perso tutto, credo fosse pronto a firmare qualsiasi cosa, anche che questa finestra era di Caravaggio (ridiamo insieme ndr). L’ho visto regolarmente in quegli anni. Ma in quel periodo la storia dell’arte era dominata dall’Inghilterra: il Burlington, le biblioteche, le aste, la Connoisseurship, era tutto in mano inglese, soprattutto nel campo dei disegni. In quegli anni la Francia era molto indietro, e un po’ anche l’Italia se paragonata all’Inghilterra. L’unica che sopravvive di quella generazione è Jennifer Montagu, che al tempo era la più giovane. Lei voleva a tutti i costi lavorare all’Archivio del Vaticano, che a quel tempo era accessibile soltanto per gli uomini. Così scrisse al direttore firmandosi come “dottore” e le concessero un appuntamento, ma quando si presentò si accorsero che era una donna. Alla fine la fecero entrare e fu la prima donna ad accedere all’Archivio Vaticano.

Con Federico Zeri era in buoni rapporti, ricordo la preziosa intervista che le fece per la serie delle Interviste del Louvre a Mentana.

Un frame dall’intervista fatta da Rosenberg a Zeri a Mentana.

Sì, Zeri era un vero amico. Lui veniva a Parigi tutti i mesi, anche per motivi di mercato, ma anche perché il suo medico era a Parigi, e lo vedeva tutti i mesi. Abitava dall’editore Dino Fabbri. Così tutti i mesi facevamo un pranzo dove lui raccontava le sue famose storie e barzellette.

Ce lo descriva.

Era geniale, stravagante e anche un po’ fuori strada, con un’intelligenza e una capacità inventiva assolutamente eccezionale. Non aveva la penna di Longhi chiaramente, ma dal punto di vista attributivo, beh, l’occhio era incredibile. È stato davvero una persona che ha contato nella mia vita.

Perché ha scelto di studiare principalmente la pittura del Seicento e del Settecento? Cosa la affascina di quel periodo?

La risposta è piuttosto semplice: era un campo completamente sconosciuto. Non intendo solamente Poussin, ma parlo anche di La Tour, che era totalmente sconosciuto, di cui feci la prima mostra nel 1972 ed è divenuto oggi uno dei pittori più importanti del Seicento. La mia specialità è stata nell’interessarmi fin dall’inizio ai disegni e alla pittura insieme, che sono spesso considerati separatamente, anche se ritengo sia impossibile studiare la pittura ignorando il disegno.

Possiamo dire che Poussin sia il suo artista prediletto?

Sì è così. Poussin è un pittore amato dai pittori e dagli storici dell’arte, non è un pittore popolare perché è difficile. Lui riteneva che con i suoi pennelli potesse parlare dei grandi temi della vita umana, la morte, la gioventù, la provvidenza etc. È difficile entrare nel suo mondo, ma una volta entrati non si esce più.

Oggi noi italiani fatichiamo a capirne la grandezza, già Zeri lamentava come fosse “sparito dalla coscienza artistica degli italiani”.

Sì, ma Longhi lo amava. Aveva scritto anche un saggio su di lui, sulla santa Margherita di Torino, pubblicato dopo la guerra ma che aveva scritto già nel 1933 in onore di Friedlander. Un bellissimo testo. Lui aveva capito Poussin. Ripeto però, è un pittore per pochi. Ebbe un grande ammiratore anche in Bernini, che lo seguì molto e lo amò profondamente. Quando Bernini venne a Parigi nel 1665 fece due cose: il progetto della statua equestre di Luigi XIV e il giro di tutti i Poussin.

È ancora dell’idea, come ha già sostenuto, che in un ipotetico incendio del Louvre se potesse salvare una sola opera sceglierebbe Poussin?

Sì. Il Diluvio di Poussin.

Nicolas Poussin, L’Inverno o Il Diluvio, 1660-1664 ca., Parigi, Louvre.

Ha dedicato una cospicua parte dei suoi studi al disegno, redigendo il catalogo ragionato dei disegni di Poussin, Watteau, David, studiando la figura di Mariette ecc. L’inventio dell’autore è superiore all’esecuzione?

Naturalmente per Poussin l’invenzione era capitale, ma lui ha distrutto i suoi disegni. Se ne conosce una piccolissima parte; questo vuol dire che non voleva che si conoscesse il suo processo ideativo, il passaggio dall’idea all’immagine.

Secondo lei perché oggi si apprezza molto più facilmente un pittore come Caravaggio rispetto a Poussin?

Perché è un pittore molto più facile. È un pittore diretto, lui parla direttamente, è potente, è un pittore di violenza. Ma è una fase credo, un momento, come in passato c’è stato il grande momento di Michelangelo, poi di Giotto, di Piero della Francesca, adesso è il momento di Caravaggio. Chi verrà dopo? Ma il fenomeno di Caravaggio è oggi incredibile, è senza dubbio il pittore italiano più famoso al mondo. Un aspetto straordinario è che tutti lo conoscono in Italia e tutti ne parlano, anche per esempio sul treno da Venezia a Padova si possono sentire conversazioni tra persone che parlano di lui. Questa è una cosa che avviene in Italia perché da voi si studia la storia dell’arte nei licei, e fa un’immensa differenza. Gli italiani conoscono molto meglio il loro patrimonio, cosa che avviene meno in Francia, mentre i francesi conoscono meglio la loro storia. Il mio più grande insuccesso è stato il non aver convinto i politici, che ho visto troppo in vita mia, di inserire la storia dell’arte al liceo. È stata una battaglia nella quale ho seguito Chastel che però ho perso.

Veniamo ora al suo lavoro presso il Louvre, che è forse il Museo per antonomasia, il più famoso e visitato al mondo, onnivoro e universale. Quali sono state le sfide maggiori che ha dovuto affrontare da direttore? Quali i successi di cui va più fiero?

Quando sono entrato al Louvre il museo era a un livello talmente indietro che non si può neanche pensare. Mancavano le toilette, in alcune sale addirittura l’elettricità, era un disastro. Dunque il desiderio di trasformare questo museo era ovvio. I lavori non furono semplici, non si sono fatti in un giorno diciamo. Si è sempre detto che c’era la destra contro la sinistra, ma questo era completamente falso. Bisogna dire poi che se il grande progetto di restauro e riallestimento è andato bene lo si deve anche alle 1200 persone che lavorano nel museo, che si sono date tutte da fare. Faccio l’esempio dei custodi, che per la maggior parte vengono da fuori Parigi e sono fieri di lavorare al Louvre, e questa fierezza ha avuto un ruolo importante nella riuscita del progetto.

Poi io ho avuto diversi conflitti con Chirac, che conoscevo bene, perché per lui il museo era il museo della razza bianca, lui avrebbe voluto un museo di tutte le civiltà, come era anche l’idea del fondatore Vivant Denon, ma gli spiegai che non era più possibile, che non si poteva fare. Lui avrebbe voluto una sezione africana, una oceanica etc.

Una scelta coraggiosa che è stata fatta e di cui sono fiero è anche quella di aver messo la pittura italiana nella Grande Galerie del museo e la pittura francese al secondo piano, per non essere accusati di sciovinismo.

Il Museo del Louvre ha aperto nel 2017 una sede succursale negli Emirati Arabi, ad Abu Dhabi. Da dove nasce questa idea? Non ritiene si tratti di un’operazione commerciale che rischia di svilire la storia del museo, di farne un brand replicabile ovunque?

Io presi un po’ parte a questa lotta. Laclotte si oppose fermamente mentre io presi posizione in maniera favorevole. Mi sembrava un’apertura verso un mondo che era fondamentalmente ostile alla civiltà occidentale, un mondo molto diverso dal nostro. Oggi però ho un po’ paura, spero di non essermi sbagliato. Laclotte era contrario perché riteneva che le opere fossero come ostaggi in pericolo. L’aspetto commerciale poi è ovvio, il Louvre ha bisogno di soldi, soprattutto se vuole mantenere l’aspetto fondamentale dell’autonomia.

Philippe Daverio disse la seguente frase in un’intervista: “nessuno va in biblioteca e legge tutti i libri, piuttosto ne prende uno o due. Uno che va in una pinacoteca dovrebbe andare a vedere uno, due quadri al giorno. Avrebbe così il tempo di capire”. Il Louvre è proprio l’esempio del museo immenso dove i visitatori si trascinano per ore cercando di vedere tutto e uscendo stremati. Cosa ne pensa?

Conobbi Daverio e trovo questa frase molto giusta. È molto giusto, specie per Poussin (ride ndr). Ma la gente un tempo guardava i quadri molto più lentamente di noi che li vediamo troppo velocemente. Dagli impressionisti in poi si è iniziato a vedere i quadri più rapidamente, bisogna rieducare lo sguardo a vedere le opere lentamente.

Cosa pensa della vexata quaestio delle restituzioni? Dalla vecchia questione dei marmi del Partenone (ricordo la recente restituzione di un frammento di una lastra appartenente al fregio orientale del Partenone da parte del Museo Archeologico Salinas di Palermo) alle spoliazioni napoleoniche fino alle più attuali problematiche legate alla decolonizzazione, penso ad esempio alla restituzione da parte della Germania dei bronzi del Benin alla Nigeria, che ha suscitato molte polemiche soprattutto nella destra tedesca.

Io sono molto amico di Bénédicte Savoy che insegna a Berlino e si occupa di questi temi. In effetti è strano che siamo amici, perché io la penso molto diversamente da lei. Naturalmente sulle opere rubate nulla da dire, ma sulle altre restituzioni non saprei; io sono un grande ammiratore dei musei e sono troppo convinto che questi siano stati una grande invenzione della civiltà democratica occidentale, per cui per amore loro non li toccherei molto. So che in questo momento gli inglesi hanno grandi problemi con la restituzione dei marmi del Partenone, perché la maggioranza di loro è favorevole alla restituzione. Voi italiani siete pronti a restituire i cavalli di Venezia a Istanbul? Quando a Venezia parlano delle Nozze di Cana di Veronese, rimaste al Louvre per uno scambio con un’opera di Le Brun accettato da Canova, io tiro fuori sempre la questione dei cavalli ed emerge un certo imbarazzo.

Questo discorso è strettamente connesso con il tema delle contestazioni del movimento Black Lives Matter in primo luogo e poi con le recenti azioni di imbrattamento dei giovanissimi movimenti ecologisti. Le statue divelte, decapitate, i monumenti e le opere d’arte imbrattate e prese continuamente di mira sono sintomo di un’arte ancora viva e in grado di suscitare emozioni forti e di veicolare messaggi o siamo invece di fronte agli asini iconoclasti come nel quadro di Frans Francken II? (Gabinetto di un amatore con asini iconoclasti, ndr).

Io sono troppo vecchio per prendere una posizione netta, sono troppo reazionario in un certo modo, ma vedo bene quali sono i problemi. Di recente la direttrice del Musée d’Orsay ha dovuto litigare molto per poter fare una mostra su Gauguin perché lui aveva delle amanti molto giovani diciamo… è un discorso complicato e le risposte non sono o bianche o nere. Pochi giorni fa ho ricevuto la visita di un direttore di un museo americano; nel 2026 festeggeranno i 250 anni dall’Indipendenza americana ma non sanno se potranno celebrarla, perché questa indipendenza l’hanno fatta con gli schiavi e massacrando i nativi, insomma, colonialismo puro. Dobbiamo ascoltare le posizioni altrui, cercare di convincere chi va troppo lontano e difendere sempre l’idea della civiltà occidentale anche con i suoi difetti.

Il Louvre è stato di recente protagonista di una bella iniziativa di acquisizione di un dipinto; il “cestino di fragole”, capolavoro di Chardin che aveva raggiunta all’asta la reboante cifra di 24,3 milioni di euro. Grazie ad uno sforzo collettivo incredibile e a una campagna portata avanti dal Louvre in maniera brillante e impeccabile, siete riusciti ad acquistarlo evitando così l’esportazione. Che cosa ha di speciale questo dipinto? Perché era così importante che facesse parte delle collezioni del Louvre?

Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Il cestino di fragole, 1761, Parigi, Louvre.

È un quadro nel quale la presenza del silenzio è tale che si rimane stupiti. Ha scaturito un fenomeno strano: la gente in strada mi fermava parlandomi di questo dipinto, è un’opera che comunica qualcosa anche a chi non sa niente di pittura. È un quadro popolare, in un paese dove sono pochi i quadri popolari. Chardin è un grandissimo pittore, anche lui un po’ anti-Caravaggio. Io ho conosciuto Morandi, e per lui era “il” pittore! Spero che il dipinto sarà pulito bene, perché è molto difficile da restaurare.

Lei vive tra Parigi, sua città natale, e Venezia, dove passa circa una settimana ogni mese. Che valore hanno queste due città per la sua vita e per il suo mestiere?

Io amo molto Venezia per motivi personali, e vivo in parte anche là, anche perché vi si lavora molto bene. Dalla mia finestra di lavoro vedo il Canal Grande e i cormorani. A Roma come a Parigi ci sono le ambasciate, il mercato, gli eventi e le distrazioni, mentre a Venezia non c’è un antiquario, non ci sono tentazioni quindi, è una piccola città all’opposto di Parigi. Si dicono molte cose sbagliate su Venezia, ma io credo ci sia ancora una base veneziana abbastanza profonda che esiste ancora, come i vecchi artigiani. Venezia è una cosa a parte, non la considero neanche Italia.

È cosa nota che lei sia anche un raffinato collezionista. In particolare è celebre la sua collezioni di animali in vetro di murano, esposta anche a Venezia col titolo “L’arca di vetro”, e la sua cospicua raccolta di pittura del Seicento e del Settecento, francese e italiana soprattutto, che ha donato al nascente Museo del Secolo d’oro che sarà inaugurato il prossimo anno fuori Parigi. Come nasce questa passione collezionistica? Perché si accumulano oggetti belli, preziosi, rari o talvolta anche comuni e apparentemente insignificanti? È forse “un antidoto contro la decadenza”, per dirla con Utz, il collezionista di ceramiche di Meissen del romanzo di Bruce Chatwin?

Io sono un modesto collezionista, mi definirei più un rigattiere. Il vero collezionista ha bisogno di tre cose: le conoscenze, i soldi e il tempo. A me mancavano tutte e tre, solo le conoscenze un po’ le ho acquisite, ma più di tutto mi è mancato il tempo. Il collezionista è un mestiere a tempo pieno. Avrei voluto donare la mia collezione a Les Andelys, la città di nascita di Poussin, dove l’idea era di realizzare un museo in un vecchio ospedale del Settecento, ma alla fine per vari motivi non si è più potuto fare e ho deciso di donarla a questo importante museo che nascerà a breve, un museo della civiltà del Seicento, per spiegare ai francesi (che sono ignoranti) come funzionava quel secolo. Non so se sia un antidoto contro la decadenza, ma sono convinto che gli unici tra noi che andranno in cielo saranno i collezionisti. Il collezionismo è un vizio non punito, come scriveva Gide. Sono vizi che si prendono in gioventù.

Torno ancora sul bel libro di Chatwin, leggendole un breve passaggio: “Un oggetto chiuso nella teca di un museo” scriveva “deve patire l’innaturale esistenza di un animale in uno zoo. In ogni museo l’oggetto muore – di soffocamento e degli sguardi del pubblico –, mentre il possesso privato conferisce al proprietario il diritto e il bisogno di toccare. Come un bimbo allunga la mano per toccare ciò di cui pronuncia il nome, così il collezionista appassionato restituisce all’oggetto, gli occhi in armonia con la mano, il tocco vivificante del suo artefice. Il nemico del collezionista è il conservatore del museo.” Come coesistono in lei queste due anime del collezionista e del conservatore?

Sì conoscevo questo libro. Io credo che il mondo del collezionismo e il mondo del museo siano due mondi vicinissimi ma molto separati. Ad esempio io non ho mai studiato la mia raccolta, ci sono due ragazze che la studiano e la conoscono molto meglio di me. La mia generazione di conservatori del Louvre ha sempre collezionato, cosa che i curatori più giovani oggi non fanno. Certamente conosco i motivi, perché le opere un tempo costavano molto meno, ma non è una spiegazione sufficiente; oggi si può fare una raccolta anche con pochissimi soldi se si sceglie un campo totalmente fuori mano. Interessatevi a campi di studio da riscoprire e andate ai mercatini delle pulci!

Era più importante la collezione di Zeri o la sua?

Oh ma non c’è dubbio, la mia! Lui prediligeva il soggetto e non l’opera, al contrario di Longhi, per il quale contava la qualità.

Cosa consiglia ai giovani studiosi di storia dell’arte?

Di andare ai mercati delle pulci, anche per farsi l’occhio. Ma capisco che l’attribuzionismo e la Conosseurship non interessano più molto.

Lo studio nell’appartamento parigino di Pierre Rosenberg. Foto di Gianni Nunno.

Intervista a cura di Claudio Sagliocco e Gianni Nunno.

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