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La quadreria di Valentino Pellegrini criminalista marchigiano al servizio dei Barberini

ANNA REBECCA SARTORE, BARBARA GHELFI

Prima parte
Anna Rebecca Sartore

Magistrato al servizio dello Stato Pontificio dagli anni Venti fino alla metà degli anni Quaranta del XVII secolo, Valentino Pellegrini († 1648) coltivò un certo interesse per l’arte del suo tempo come dimostra una documentazione inedita che dà conto dell’esistenza di una selezionata collezione di dipinti ospitata per circa un trentennio nel palazzo di famiglia a Matelica, oggi sede del Museo Piersanti1. Questo contributo si propone di rendere note le opere della raccolta matelicese, ricorrendo alle testimonianze documentali radunate in copia tra il 1686 e il 1706 in occasione di un lungo contenzioso tra la famiglia Manciforti,  legata ai Pellegrini da un vincolo parentale, e i Carmelitani Scalzi di Santa Maria della Vittoria a cui pervenne l’eredità di Valentino2.
A citare per primo Pellegrini come committente di Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (1591-1666) fu Carlo Cesare Malvasia nella Felsina Pittrice, che lo rammentava quale acquirente di un «Salvatore» risalente al 1639 e di un «San Filippo Neri» del 1641, confondendo, per questo secondo quadro, il nome di battesimo dell’uomo di legge chiamandolo Palantiero anziché Valentino3. Con la prima pubblicazione ad opera di Jacopo Alessandro Calvi del Libro dei conti della bottega guerciniana, posto in chiusura della biografia dell’artista, ben sette dipinti del Guercino e almeno due nature morte del fratello Paolo Antonio Barbieri realizzati tra il 1629 e il 1641 risultavano legati al patronage Pellegrini4. Nell’ambito degli studi dedicati all’artista le lapidarie informazioni riferite nel registro di bottega avevano permesso di circoscrivere l’attività professionale di Pellegrini alla sfera giuridica e di individuare la sua appartenenza sociale a una borghesia laico-ecclesiastica che però si riteneva di provenienza emiliana5. È dalle indagini di Alberto Bufali e Saverio Sturm dedicate ai Carmelitani Scalzi e, soprattutto, a quelle di Simona Feci sul personale giusdicente dello Stato Pontificio in età barocca che è emerso un profilo più completo di Pellegrini, la cui carriera di funzionario operante nell’apparato criminale è stata messa in relazione ad altri esponenti della sua famiglia6. Già il padre, Giovan Battista, a sua volta magistrato, aveva ricoperto importanti ruoli a Roma, come anche nelle città dell’Umbria e dell’Emilia, inaugurando una nuova stagione di ascesa sociale per i Pellegrini, i cui esponenti, quasi tutti giurisperiti, si tramandavano il mestiere di notaio da almeno cinque generazioni7. Ben inserito nel sistema clientelare della curia romana, Giovan Battista dovette garantire incarichi nella magistratura criminale al primogenito Valentino, anche se pochi sono i dati che riguardano la sua giovinezza e che si ricavano dal suo testamento e da quello del padre8. In un periodo imprecisato egli prese gli ordini minori e nel 1603 entrò a far parte della Confraternita del Rosario di Bologna, città in cui si può supporre si fosse trasferito già da qualche tempo, forse nel momento in cui il padre aveva assunto l’incarico di auditore del tribunale del Torrone, dove era stato in carica tra il 1596 e il 15999. E ancora in Emilia si trovava Valentino venti anni dopo, nel 1627, in qualità di uditore del legato di Ferrara Giulio Cesare Sacchetti. Pellegrini aveva maturato una lunga esperienza al fianco del cardinale, il quale era legato a lui da una «non ordinaria affetione» e lo riteneva «dotato d’una particolar destrezza e di attitudine a qualsivoglia impiego», come riferisce in una lettera del marzo 1631 segnalandolo al nipote del papa, Taddeo Barberini, affinché lo tenesse in considerazione per un posto resosi vacante nella prefettura di Roma10. Sembra che la raccomandazione non abbia suscitato il successo sperato poiché Valentino esercitò come luogotenente di Ottavio Corsini in Romagna fino al 1634, quando prendeva le redini del governo di Ferrara il cardinale Giovan Battista Pallotta. In tempi diversi Pellegrini regalò ad entrambi i prelati un dipinto del Guercino, un Sant’Andrea a monsignor Ottavio (Fig. 1) e un Sant’Agostino scrivente al cardinal Pallotta, che nominò suo esecutore testamentario e a cui lasciò il quadro in memoria della sua «humilissima servitù»11.

Fig. 1 Giovanni Francesco Barbieri detto Il Guercino, Sant’Andrea Corsini, Firenze, Galleria Corsini

Omaggiare i propri protettori con donativi preziosi era una pratica condivisa anche da altri giusdicenti, in particolare da Benadduce Benadduci, parente del Pellegrini, che con la mediazione del Sacchetti inviò nel 1640 una Lucrezia del Guercino a Francesco Barberini12. Nel corso degli anni trascorsi tra l’Emilia e la Romagna è dunque verosimile che il contatto diretto con tre  mecenati di ricercata cultura pittorica quali Sacchetti, Corsini e Pallotta, possa aver indirizzato il gusto collezionistico del criminalista orientandolo su artisti affermati, non solo Guercino ma forse anche Francesco Albani e la sua bottega di cui, secondo documenti successivi, sembra possedesse una Venere e nove amoretti e una Venere e due amori13. Mentre Valentino avanzava in carriera, parte della famiglia si trasferiva nel palazzo di Matelica, posto in una delle vie principali del centro urbano e frutto dell’accorpamento di più casamenti costruiti tra il XV e la prima metà del XVI secolo (Fig. 2)14.

Matelica, Palazzo Pellegrini Piersanti, facciata (foto Archivio Autore)

Tra il 1627 e il 1628 Giovan Battista, che aveva già finanziato un primo intervento edilizio nel 1599, promuoveva un ulteriore ampliamento dell’edificio volto a realizzare una lunga galleria al piano nobile alla quale, in tempi diversi, contribuì economicamente anche Valentino15. Si trattava di un ambiente che dopo essere stato affrescato entro il 1631 da anonime maestranze locali, svolse una funzione di rappresentanza e di esposizione delle opere d’arte di carattere profano acquisite da Valentino durante gli anni trascorsi in Emilia e poi a Roma, dove era finalmente approdato nel 1634 in veste di luogotenente criminale16. Svolgendo l’incarico in più uffici curiali, ebbe modo di frequentare l’entourage barberiniano accanto al Governatore Giovan Battista Spada che lo citava in un paio di occasioni tra il 1635 e il 163817.
Risale all’ultima fase della sua attività di criminalista – attorno al 1644 o al 1645 quando era luogotenente dell’Auditor Camerae – un episodio che rimarca il sincero interesse nei confronti dell’arte, riferito circa cinquant’anni dopo dal suo cameriere personale, Antonio Pifari, nel corso del processo tra i Carmelitani e i Manciforti. L’uomo ricordava come Valentino

fece dipingere da un pittore in un quadro il ritratto della sua persona con una cimarra con le maniche lunghe alla ducale di velluto nero a opra e con una scrittura in mano piegata a modo di memoriale, et io assistevo al detto pittore ben spesso mentre lo dipingeva; e doppo che detto quadro fu compiuto il medesimo Signor Valentino ordinò a me che lo facessi affiggere, come feci, in una stanza della casa, nella quale lui abitava. In tempo poi che l’istesso Signor Valentino risolvette di partir di Roma per tornare a Matelica mi comandò che il suddetto quadro colli altri mobili lo dovessi rimandare qua in Matelica […] e fu affisso nel salotto della sua casa18.

Sebbene non si conosca né l’opera né il suo esecutore, questa testimonianza consente un aggancio con le vicende successive che interessarono la selezionata collezione di dipinti che Valentino teneva nella sua residenza romana e che trasferì nel palazzo di Matelica nel 1646, quando si ritirò a vita privata per prendersi carico del patrimonio famigliare fino ad allora amministrato dal fratello minore Fabio che, morto nel maggio dello stesso anno, lo aveva nominato tutore dei tre figli ancora minorenni, Virginia, Giovanni Battista e Giuseppe19. Nel giro di poco tempo Valentino avviò una serie di operazioni al fine di separare i propri beni da quelli in comune con i nipoti, per via di una certa acredine nei confronti della cognata, la nobile matelicese Francesca Razzanti, che riuscì a estromettere dalla propria eredità. Nell’ottobre 1647, gravemente malato, dettò le sue ultime volontà20. Pur lasciando tutto ai due nipoti maschi, inserì una clausola testamentaria che avrebbe avuto valore nel caso in cui questi non avessero avuto una discendenza maschile, istituendo eredi universali i Padri della Compagnia di Gesù con l’obbligo di fondare un collegio a Matelica, nella casa paterna oppure in un altro luogo più idoneo21. Nel caso in cui i Gesuiti avessero rifiutato l’eredità, Valentino indicava altri ordini religiosi, fra cui i Carmelitani Scalzi. Disponeva infine di far recapitare al cardinal Pallotta, una copia del testamento assieme alla «figura della testa di S. Agostino, che io ho di mano del Guercino da Cento»22. Si tratta dell’unico dipinto slegato dal fedecommesso, imposto da Pellegrini ai quadri che si trovavano «nella galleria, nella sala, et in altre stanze», di cui proibiva la vendita e che prevedeva rimanessero nel palazzo di famiglia, dove morì il 4 gennaio 164823. Nell’inventario post mortem, compilato quattro giorni dopo, sono registrati in tutto 122 quadri, elencati assieme agli altri arredi secondo una sequenza topografica che inizia dalla «sala principale» del piano nobile per continuare al secondo piano e terminare al pian terreno24. Le opere sono descritte in base al soggetto, alla dimensione – espressa solitamente in maniera generica con «quadro grande», «mezzano», «piccolo» –, e talvolta anche al formato – «ovato», «ottangolo». Puntuale è invece il riferimento alle cornici, di cui è registrato il materiale, il colore e la tipologia. Il nome dell’autore è citato solo in tre casi, per una «Marina con vascelli di Filippo Napolitano» e per «due quadri uniformi ottangoli senza cornici di fiori dentro vasi, uno dorato, e l’altro d’argento di Mario dalli Fiori» che si trovavano nella galleria25. Le tre opere assieme ad altre 57 disposte in diversi ambienti del piano nobile vennero acquisite da Valentino, un’indicazione che se messa a confronto con un inventario topografico precedente, compilato dopo la morte del fratello Fabio, consente di stabilire quali dipinti fossero stati portati da Roma nel 1646 e quali fossero invece stati spediti in tempi anteriori26. Fornisce qualche dato rilevante in merito ai nomi dei pittori l’elenco steso dai Carmelitani Scalzi il 1° novembre 1694  che enumera 62 dipinti «della nuova fundatione di Matelica» per la maggior parte appartenuti a Valentino27. Del primo piano dell’edificio si conserva inoltre una pianta realizzata intorno al 1728, anno dell’acquisto dell’immobile da parte dei Piersanti, che dà conto della distribuzione dei diversi ambienti antecedente ad altri lavori di ampliamento promossi dai nuovi proprietari nell’ala settentrionale del palazzo28. In base a questo supporto icnografico si è tentato di ricostruire l’allestimento dei dipinti nei quattro settori abitativi che strutturavano il piano nobile riferiti nell’inventario del 1648 (Fig. 3).


  Fig. 3 Ricostruzione planimetria del piano nobile del Palazzo Pellegrini Piersanti nel XVII sec.
(da Il Museo Piersanti e la sua collezione, a cura di G. Spina, Fermo 2021, p. 28)

Corrispondono ancora oggi alle prime sette sale del Museo Piersanti il più antico appartamento di rappresentanza nell’ala meridionale – composto dalla «sala principale» e due camere da letto – e il secondo appartamento nel corpo trasversale esposto a est – costituito da un’enfilade di quattro stanze –, mentre la galleria e gli ambienti di servizio menzionati nell’inventario hanno subito consistenti rifacimenti29. L’allestimento venne studiato con attenzione, in quanto sia i soggetti che i formati dei quadri erano sistemati con una certa coerenza nei diversi ambienti. Nella sala principale (Fig. 4) si contavano quattordici ritratti di pontefici e cardinali, sei tempeste o porti di mare e una marina con la Fuga in Egitto.

Fig. 4 Matelica, Museo Piersanti, Salone degli arazzi (da Il Museo Piersanti e la sua collezione, a cura di G. Spina, Fermo 2021, p. 63)

Dall’inventario del 1646 si apprende che questi «sette quadri di prospettiva diversi», tutti di proprietà di Valentino, si trovavano già nello stesso ambiente, sei dei quali «quasi della medesima grandezza sopra le porte» e uno più grande posto sopra la credenza30. Adiacenti alla sala, le due camere da letto esposte ad ovest «verso Sant’Agostino» ospitavano un numero esiguo di opere a carattere devozionale ed erano rivestite da arazzi31. Dalla parte opposta, la «stanza contigua alla sala verso la chiesa di Santa Croce», che nel 1646 era quasi vuota, risultava riallestita con molti degli arredi che Valentino aveva portato dalla residenza romana. Alle pareti, foderate da «corami verdi con fiorami d’oro», erano appesi diciotto dipinti a tema religioso prevalentemente di medie o grandi dimensioni, tra i quali, almeno cinque, erano autografi del Guercino32. Tra quelli certamente documentati nel Libro dei conti erano esposti in questo ambiente il San Filippo Neri del 1640 (Fig. 5), descritto nell’inventario come un «quadro grande con cornici dorate», l’ovato con la Madonna con il Bambino, a cui si aggiunge un interessante dettaglio iconografico, ovvero che il piccolo Gesù poggia «sopra un cuscino» e il San Paolo «mezzano», entrambi commissionati nel 163933.

Fig. 5 Giovanni Francesco Barbieri detto Il Guercino, San Filippo Neri, Bologna, Fondantico di Tiziana Sassoli

Disposto assieme a queste opere c’era un «ovato del Salvatore col mondo in mano» che dovrebbe corrispondere al Salvator Mundi ricordato da Malvasia tra i quadri licenziati dal centese nello stesso 1639. A conforto di questa ipotesi si può addurre l’elenco stilato dai Carmelitani nel 1694, nel quale il dipinto è segnalato come opera del Guercino ed è accoppiato alla Madonna con il Bambino, con cui condivide il formato ovale e la tipologia delle cornici34. È possibile che anche la «Testa di un San Francesco», il cui saldo di 25 scudi è appuntato nel Libro dei conti il 3 novembre 1629, possa riconoscersi nel «San Francesco vestito dà cappuccino» menzionato  tra i quadri conservati nella stessa stanza, dove si trovavano pure il «quadro mezzano con cornici tutte dorate di Sant’Agostino scrivente», poi consegnato al cardinal Pallotta, e altri tre dipinti, ovvero un San Pietro «mezzano», una Sibilla e un San Pietro piangente di grandi dimensioni35. Nel documento tardo seicentesco le tre opere sono tutte attribuite al centese ed è fornita qualche precisazione in più rispetto all’inventario del 1648. La Sibilla è indicata come una «Cimeria», mentre la mezza figura del San Pietro ha «un libro in mano»; quest’opera è inoltre registrata assieme all’altro quadro mezzano con San Paolo, come a formare una coppia di pendant con «cornici intagliate di noce e d’oro»36. Dal Libro dei Conti si ricava che il 24 giugno 1638 Pellegrini aveva versato una caparra di 31 scudi per «duoi quadretti da farsi», di cui però manca la registrazione del saldo37. Si propone di riconoscere nella coppia il Sant’Agostino scrivente e forse il San Pietro con un libro, oppure il Salvator mundi, anche se dalle scarne descrizioni inventariali sembra possibile dedurre che quest’ultimo fosse un quadro grande38.
Considerando che del raffinato gruppo di dipinti solo la Sibilla – per cui è difficile stabilire se fosse veramente un autografo guercinesco – si trovava già nel palazzo matelicese prima del 1646, è evidente il grande valore, anche di affezione personale, che il collezionista attribuiva ai dipinti devozionali, i quali dovevano averlo seguito nel corso della sua esistenza itinerante, come una sorta di “corte domestica”, fatta di immagini sacre dove rifugiarsi dopo le giornate trascorse ad amministrare la giustizia tra delitti, rapine e disordini di vario genere. Se la stanza «verso Santa Croce» era riservata alla sua selezionata e più intima collezione, Valentino aveva via via spedito ai familiari alcune opere destinate agli altri ambienti del piano nobile, scegliendone accuratamente i soggetti che, dalla lettura degli inventari, paiono meditati per un allestimento strutturato secondo il genere e la tipologia. Proseguendo l’itinerario la stanza successiva a quella di cantone era il salotto dove i dipinti esposti presentavano scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, tutti di dimensioni medio-grandi e inviati da Valentino prima del suo ritorno, ad esclusione di una «Regina di Saba ricevuta da Salomone» che è citata solo nell’inventario del 1648 e che nel 1694 è descritta come compagna della «Giuditta con la testa di Oloferne» già collocata nello stesso ambiente39. Sempre qui c’era anche un grande «Angelo che apparisce in sogno a San Giuseppe dormiente con cornici negre e fogliami di oro» assegnato al Guercino nell’elenco del 169440. Un’attribuzione sulla quale, a fronte della dispersione del dipinto, è difficile fare affidamento, così come quella per una «Resurrezione di Lazzaro in piccolo con 19 figure», considerata di Tintoretto41. L’opera in questione nel 1648 si trovava nella camera da letto di Valentino, posta in successione dopo il salotto, dove si segnala la presenza di un «mazzo di penne di struzzo col suo manico» usate per «nettare quadri», segno evidente di un’attenzione particolare riservata alla conservazione della collezione42. Nella camera accanto, ultima della serie di stanze nell’ala orientale, si conservava un’altra opera attribuita al Guercino nell’elenco del 1694, ovvero un quadro grande «con cornici negre, e fogliami d’oro della Madonna, S. Giuseppe e Christo» già presente nel palazzo ma di proprietà di Valentino, assieme al quale erano altri dipinti dello stesso formato, una Chiamata di San Matteo e uno Sposalizio di Santa Caterina43. La lunga galleria (Fig. 6 ) ospitava una quadreria di 33 opere da cavalletto i cui temi profani e mitologici, nature morte e paesaggi rispecchiavano, almeno per la scelta dei soggetti, un certo aggiornamento nei confronti del gusto collezionistico che si era affermato nella prima metà del secolo. Stando alla descrizione fattane nell’inventario del 1646, sei dipinti erano sistemati come sopra porta e verosimilmente dialogavano fra loro: un Ratto di Cefalo e un Ratto di Proserpina con le cornici bianche, due «quadri compagni […] uno di pollami e carnagioni, l’altro di pesci, e frutti», «Doi amori, uno virtuoso e uno lascivo» e «una Venere con amorini che tirano di frezze con paese, e boscaglia figure piccole» di Francesco Albani44.

Fig. 6 Matelica, Museo Pierasnti, Galleria all’inizio del XX secolo (Foto Archivio Piersanti)

La natura morta con pesci e frutti, potrebbe identificarsi con il «quadro di pessi» commissionato a Paolo Antonio Barbieri nel luglio 1632; l’opera è ricordata ancora nell’inventario del 1648 dove si aggiungono alcuni particolari descrittivi, ovvero un «quadro grande con cornici bianche rappresentante diversi frutti e pesci con un gatto»45. Sia nel 1646 che nel 1694 è ricordata a pendant di un’altra natura morta ricordata nel 1648 come «un quadro grande con cornici bianche rappresentante diversi animali morti, con un gallo d’India vivo, et un pezzo di cascio parmigiano», forse tra quelli realizzati da Paolo Antonio per Valentino, per cui il pittore registrava il saldo il 30 ottobre 1632 nel Libro dei conti46. L’allestimento della galleria comprendeva altre quattro nature morte appaiate fra loro, ovvero due «quadretti bislonghi con u[c]celli, che guardano in uno specchio, et in una caraffa» e i due Vasi di fiori in ottangolo di Mario Nuzzi47. Si contavano poi: dieci quadri di vario formato che rappresentavano paesaggi, marine o tempeste, tra cui anche il dipinto con vascelli assegnato a Filippo Napoletano; quattro ovati con i suicidi di Cleopatra, Artemisia, Lucrezia e Porzia; altri cinque dipinti a soggetto mitologico, due teste di donna, un quadretto di battaglia, uno con un «giovane che soffia in un tizzone» e infine il ritratto del cardinale Sacchetti48. Ad esclusione di dieci dipinti, per la maggior parte paesaggi, tutti i quadri erano stati acquisiti da Valentino e passeranno in eredità ai Carmelitani Scalzi. Alle pareti di altri quattro ambienti del piano nobile, cucina compresa, erano appese opere di soggetto sacro, ad esclusione della «stanza della loggia vicina alla Galleria e Cucina» usata come sala da pranzo dove si trovavano anche alcuni ritratti, tra cui quelli di Valentino e del padre Giovan Battista49.
Alla sua morte, dunque, Pellegrini lasciava una nutrita collezione che, in virtù del fedecommesso, rimase nel palazzo di famiglia. Nel marzo 1660, il nipote Giovan Battista, al compimento dei vent’anni, s’impegnava ad adempiere tutte le disposizioni contenute nel testamento dello zio, mentre nel 1677 l’altro nipote Giuseppe, entrato nel frattempo nella Compagnia di Gesù, rinunciava alla propria eredità in favore del fratello maggiore50. Un atto di transazione che probabilmente nascondeva un’«invecchiata discordia» tra i due discendenti di Valentino, riferita da una tradizione orale poi messa per iscritto nella prima metà dell’Ottocento dall’erudito matelicese Camillo Acquacotta. Sembra infatti che il 23 agosto 1678, Giuseppe fosse ritornato da Roma assieme ad «alcuni sicari» e simulando riconciliazione avesse invitato il fratello Giovan Battista nella sua stanza con il pretesto di fargli vedere alcuni oggetti d’arte e lo avesse poi fatto «trucidare». In seguito al fratricidio Giuseppe fuggì trovando rifugio ad Esanatoglia presso i Buscalferri suoi lontani parenti, per poi morire nell’aprile del 168051.
La documentazione compilata successivamente dà ragione a questa versione dei fatti e fornisce ulteriori dettagli, in quanto le vere ragioni del delitto furono dissimulate con il furto e gli assassini, scappando, rubarono due bandinelle da letto e una Deposizione di Cristo con due angeli52. Nel settembre 1678, tutto il patrimonio fu preso in gestione dal marito di Virginia Pellegrini, Marcantonio Manciforti di Monte Santo che, a nome dei due figli minorenni Giovanni e Fabio, trasferì nella sua dimora gli arredi e la collezione d’arte già nel palazzo matelicese53. Nonostante il pubblico processo non avesse individuato nessun colpevole per l’omicidio di Giovan Battista, i Gesuiti, a causa delle maldicenze, preferirono rinunciare alla consistente eredità di Valentino che passò ai Carmelitani Scalzi di Santa Maria della Vittoria di Roma. Dal 1684 – anno in cui risulta la prima visita formale dei frati a Matelica – fino al 1693 si susseguirono verifiche sulla consistenza dell’eredità, mentre le pertinenze spettanti ai Pellegrini rimasero ai Manciforti, con i quali i Carmelitani avviarono una procedura legale che si sarebbe conclusa ufficialmente solo nel 1706 a causa della mancata restituzione di alcuni «beni controversi»54. Il 20 novembre 1692 i Manciforti consegnarono al padre priore Filippo di San Carlo gli ultimi arredi, tra questi anche ventisei dipinti, compresi quelli del Guercino, e il 4 novembre 1694 le 60 opere vincolate dal fedecommesso che componevano la raccolta privata di Valentino erano elencate tra i «mobili di casa» dei Carmelitani nel palazzo Pellegrini55. Nel registro dei beni dei frati risalente al 1° aprile 1695 il valore dei «66 pezzi di quadri» – «15 o 20» dei quali erano «di mano di pittori eccellenti» – ammontava a 2400 scudi, senza considerare «5 o 6 pezzi prestati al governatore di Matelica»56. Con i circa 40.000 scudi del lascito Pellegrini gli Scalzi a partire dal 1697 avviarono la costruzione di un nuovo insediamento su progetto dell’architetto Carlo Buratti, erigendo un grande convento e una chiesa dedicata ai Ss. Valentino e Teresa compiuta intorno al 172057. Se ancora nell’agosto 1695 i frati provvedevano a far realizzare le cornici per alcuni dei dipinti ereditati, il 5 aprile 1704 gli era concessa una revoca al fedecommesso per poter vendere due opere di carattere licenzioso una delle quali di Francesco Albani, mentre l’altra viene ascritta alla sua bottega, cioè Venere e nove putti e Venere e due amorini che nel 1648 si trovavano nella galleria del palazzo58. Le ingenti spese per la fabbrica e il dispendioso tenore di vita degli Scalzi nei primi decenni del secolo, desumibile dai registri di entrata e uscita del convento, porta a ritenere che le opere d’arte più preziose siano state destinate alla vendita poco tempo dopo la conclusione del contenzioso legale con i Manciforti. Nel 1728 i Carmelitani trovarono in Venanzio Filippo Piersanti, allora cerimoniere di Benedetto XIII, un acquirente interessato al grande edificio appartenuto ai Pellegrini, ormai in stato di abbandono e contraddistinto da una «memoria funesta»59. Grazie a questa congiuntura i Piersanti riuscirono ad acquistare l’immobile per la cifra irrisoria di 800 scudi e lo riportarono a nuovo splendore, realizzando una nuova ala al piano nobile dotata di un oratorio che avrebbe ospitato la cospicua raccolta di reliquie di Venanzio Filippo, aperta alla pubblica venerazione sin dalla fine del Settecento, mentre l’intero palazzo con la sua collezione fu donato nel 1901 al Capitolo della Cattedrale da Teresa Capeci Piersanti, istituendo così il Museo capitolare di Matelica60. Il lascito dei Pellegrini al Museo Piersanti non si esaurisce nella struttura del palazzo ma si allarga con buona probabilità anche ad arredi e dipinti di soggetto profano che passarono ai Piersanti al momento dell’acquisizione dell’edificio61. Tra questi la pregevole serie di arazzi, documentata nella raccolta in un inventario del 1763, nonché alcune marine e paesaggi, come una Burrasca riferita a Agostino Tassi, opera affine al mondo figurativo di Giulio Parigi e databile tra il secondo e il terzo decennio del Seicento (Fig. 7)62.

Fig. 7 Agostino Tassi, tempesta di mare, Matelica, Museo Piersanti (da Il Museo Piersanti e la sua collezione, a cura di G. Spina, fermo 2021, p. 156)

Seconda parte
Barbara Ghelfi

Benché nel Seicento il Guercino non sia stato l’unico artista di scuola bolognese a lavorare per le Marche, il suo è il nucleo di pitture più ragguardevole eseguito per la committenza locale, con la quale intrattenne un rapporto fruttuoso che si snoda con continuità nel corso dell’ultimo trentennio della carriera63. Com’è noto il raggio d’azione del suo intervento tocca tutta la regione, da Pesaro a Fano, fino a Senigallia, Osimo, Ancona, Fabriano, Recanati e Tolentino, mentre il genere della produzione si presenta variegato e spazia dalle pale d’altare a opere destinate alla devozione privata. Se per quanto riguarda l’analisi stilistica e la fortuna critica delle pitture si può contare su studi qualificati64 la sfera dei committenti marchigiani del Guercino e la rete di relazioni che li unì è in gran parte da esplorare. Il ritrovamento da parte di Anna Rebecca Sartore degli inventari della quadreria di Valentino Pellegrini offre l’opportunità di riesaminare i suoi rapporti con altri due committenti del Centese, il criminalista tolentinate Benadduce Benadduci (1601-1643), legato a Pellegrini da un vincolo di parentela65 e il cardinale Giovanni Battista Maria Pallotta (1594-1668), personaggi che hanno in comune la frequentazione dell’entourage dei Barberini, dunque la stessa rete sociale e una cultura artistica affine66. Nella loro carriera i togati laici Pellegrini e Benadduci ricoprirono incarichi giuridici importanti nell’apparato criminale dello Stato della Chiesa67. Com’è stato precisato, in continuità con i ruoli ricoperti nell’amministrazione pontificia dai suoi famigliari, Pellegrini rivestì varie cariche: fu luogotenente criminale, cioè sovrintendente per il legato all’apparato giudiziario della legazione, in varie città dello stato e ottenne la prestigiosa carica di protonotario apostolico. Soggiornò in diverse occasioni a Ferrara dove si trovava nel 1627 e nel 1630 come uditore del legato Giulio Sacchetti, quindi nel 1631 in qualità di sotto uditore chiedeva al comandante dell’esercito pontificio Taddeo Barberini di raccomandarlo come giudice di Borgo, infine fu luogotenente criminale del legato tra il 1638 e il 164068. Quanto a Benadduci egli esordì come funzionario negli uffici pontifici nel 1624 quando venne nominato governatore di Tuscania; il suo arrivo in Emilia si data al dicembre del 1634 quando il cardinale legato Stefano Durazzo lo nominò suo uditore criminale, quindi nel gennaio 1635 Taddeo Barberini lo elevò a giudice delle soldatesche del presidio cittadino. Nel 1637 si spostò a Bologna con la stessa carica, quindi nel 1638 fu nominato uditore del Tribunale del Torrone69. Accanto a Pellegrini e Benadduci si muoveva anche un altro importante cliente del pittore centese, l’abruzzese Alessandro Argoli, che dopo essersi addottorato alla Sapienza, condusse nelle magistrature criminali una carriera analoga a quella dei due marchigiani e fu impiegato dall’amministrazione tra Ferrara e Bologna70. Analogamente a Pellegrini, acquisì la prima tonsura che gli consentì di progredire in carriera: dopo essere stato nominato vescovo di Veroli nel 1651, Argoli divenne vicereggente del Vicario di Roma, il cardinale Marzio Ginetti (1653-1654), anch’egli fedele committente del Guercino71. I comportamenti esemplari di Pellegrini, protetto dal cardinale Sacchetti e di Benadduci, sponsorizzato dal cardinale Durazzo, sono attestati da alcune lettere. Tra il 1629 e il 1631 Sacchetti informa Taddeo Barberini della buona condotta di Pellegrini come uditore generale del campo nella legazione ferrarese, mentre nel maggio del 1637 Durazzo rivolgendosi allo stesso Sacchetti tesse le lodi di Benadduci che era stato suo luogotenente criminale «è persona di sì honorate qualità, meriti e valore, che come ne posso per esperienza rendere testimonio così lo faccio con la presente all’Em. Vostra e con quell’affetto che m’invita l’obligo mio»72. Il circostanziato studio documentario di Simona Feci ha fatto chiarezza sul tema della retribuzione dei magistrati mettendo in luce che ad alti livelli il criminalista dello Stato pontificio percepiva un ottimo appannaggio, tanto da divenire spesso il principale produttore di reddito della famiglia d’origine73; questo spiega la disponibilità economica di Pellegrini e Benadduci che furono in grado di mettere insieme collezioni di grande pregio, acquistando tele del Guercino e, per quanto riguarda Benadduci, anche del più costoso Reni.
Il primo a rivolgersi al Guercino fu Pellegrini che il 3 novembre del 1629 gli versò 25 scudi per una testa di San Francesco74, destinata alla sua raccolta personale75, quindi due anni più tardi, il 10 dicembre 1631, acquistò, questa volta per 30 scudi, un altro quadro di testa, quello con l’intenso ritratto di Sant’Andrea Corsini (Firenze, collezione Corsini) da donare a monsignor Ottaviano Corsini, in ricordo della canonizzazione del vescovo Andrea (Fig. 1)76. All’epoca il cardinal Corsini, dopo essere stato nunzio in Francia, aveva ricevuto da Carlo Barberini l’incarico di Presidente di Romagna e dell’Esarcato di Ravenna. Egli era dunque una figura di spicco dell’amministrazione Barberini e un uomo di fiducia della famiglia papale. Nell’inventario dei quadri che nel 1631 si trovavano in suo possesso viene ricordato: «Un quadro con una testa di S. Andrea Corsini del Guercino da Cento, donato il Sig. Valentino Pellegrini»77, che seguì il suo colto proprietario con il trasferimento a Roma nel 1636, per poi giungere a Firenze sei anni più tardi dopo la scomparsa del prelato78.
La politica dei doni elargiti a influenti protettori, come accade in questo caso, ha svolto un ruolo significativo nell’allargare la fruizione della produzione sacra e allegorica del Guercino, inserendolo a pieno titolo nel circuito del collezionismo ad alto livello tra Ferrara, Bologna e Roma e incrementando la richiesta da parte dei prelati o di altri altolocati mecenati79. Tra l’altro, scorrendo il Libro dei conti dell’artista, si rileva come in questi anni egli producesse raffinate tele “di testa” o di mezze figure di santi, destinate alla devozione privata, eseguite a prezzi tutto sommato non troppo elevati e che proprio per questo ebbero grande diffusione.
Nella bottega del Guercino Pellegrini trova un interlocutore di fiducia nel fratello dell’artista, quel Paolo Antonio Barbieri rinomato autore di nature morte in chiave rustica, che, nell’estate del 1632, esegue per il matelicese un quadro con Pesci e un altro con Frutti, pagati circa 20 ducatoni ciascuno80. Va osservato come proprio in questi anni, tra il 1629 e il 1634, il giovane ma già affermato naturamortista, licenziasse diversi quadri da ferma per personalità di rilievo come i cardinali Bernardino Spada e Lorenzo Magalotti, il «vescovo Gonzaga» (forse Vincenzo Agnelli Suardi, vescovo di Mantova dal 1620 al 1644), il duca di Modena Francesco I d’Este, il marchese Roberto Obizzi e una non meglio precisata principessa Aldobrandini. Commissioni che sono indicative di un buon successo del fratello del Guercino, che già a queste date poteva contare su un pubblico di tutto rispetto. Terminando il suo incarico a Ferrara nel 1632 Pellegrini interrompe anche le relazioni col centese, che riallaccerà, almeno stando al Libro dei conti, nel 1638 quando rientra in città per assumere l’incarico di luogotenente criminale del cardinale legato. Come risulta dal registro il 24 giugno 1638 versa 8 doppie di Spagna (31 scudi) come caparra di due quadretti «da farsi», i cui soggetti non vengono precisati. Nel pubblicare l’edizione critica del registro contabile avevo ipotizzato che potesse trattarsi di due teste, quella di San Paolo e quella del Salvatore81. Il San Paolo, ricordato da Malvasia nel 1639 come opera per Pellegrini, in effetti viene liquidato proprio in quell’anno, mentre del pagamento a saldo del Salvatore non sembra conservarsi traccia82. Il 17 febbraio e il 26 settembre del 1639, Pellegrini versa complessivamente 124 scudi per l’ovale raffigurante la Madonna col Bambino, che, come ha chiarito Anna Rebecca Sartore, insieme al Salvatore era un quadro di grandi dimensioni83. Nell’inventario dei quadri di Pellegrini ceduti ai carmelitani nel 1694, sono ricordati: «Due quadri ovati, uno della Madonna con il Bambino e l’altro d’un Salvatore con cornici intagliate à festoni con frutti tutte dorate del Guercino»84. Gli acquisti di quadri del Guercino non si esauriscono qui e il 19 maggio del 1640 Pellegrini sborsa una caparra di 20 ducatoni (circa 26 scudi) per la commovente mezza figura di San Filippo Neri, recentemente riemersa all’attenzione degli studi (Fig. 5). Al momento del saldo, il 7 gennaio 1641, il marchigiano paga 37 scudi e mezzo cioè altri 30 ducatoni85. Fu probabilmente la fedeltà all’artista che gli consentì di spuntare un prezzo contenuto – solo 50 ducatoni contro i 60 richiesti in genere in questi anni per le mezze figure – e di ottenere un’opera che impressiona per l’emotività coinvolgente del suo protagonista e si distingue per la straordinaria qualità esecutiva. Lo struggimento del santo si esprime nelle lacrime che gli solcano il volto, mentre con grande naturalezza egli sorregge il vangelo al centro di un delizioso brano di natura morta formato anche dal tavolo, dal cuscino e dal giglio candido. Per via della resa tattile delle vesti sontuose e per l’elevata qualità tecnica che contraddistingue, non solo Filippo Neri, ma anche le teste dei cherubini col quale egli teneramente dialoga, si tratta senz’altro di uno dei dipinti più realistici ed emozionanti prodotti dal Guercino nel quinto decennio. Una prova apicale che ci fa rimpiangere la perdita delle altre tele dipinte per Valentino Pellegrini86.
Se si confrontano le attestazioni del Libro dei conti esaminate pocanzi con la documentazione d’archivio rinvenuta da Anna Rebecca Sartore emerge un dato significativo sul quale occorre fare una riflessione: nell’inventario dei quadri di Pellegrini ceduti ai Carmelitani nel 1694, vengono ricordati, oltre a quelli già descritti, altri cinque dipinti riferiti a lui, che tuttavia non compaiono nel registro di casa Barbieri. Si tratta di un Sogno di Giuseppe con l’angelo, una Sacra famiglia, un San Pietro piangente, un altro San Pietro e una Sibilla Cimmeria. Purtroppo non essendo ancora stati identificati (un’ulteriore complicazione è rappresentata dalla mancanza delle misure) non è possibile stabilire se si trattasse di originali – magari non registrati nel libro contabili perché donati, oppure comprati da Pellegrini in un secondo momento – o piuttosto di repliche o di opere di bottega. È ancora da chiarire il ruolo del gentiluomo centese Francesco Maria Mastellari, che nei documenti Pellegrini risulta legato al matelicese da un censo siglato l’11 ottobre del 1661. Si tratta di colui che nel 1631 agisce come intermediario tra Guercino e la Compagnia delle Stimmate di Ferrara per l’esecuzione del San Francesco che riceve le Stimmate (Ferrara, Palazzo Arcivescovile) e che nel 1646 paga l’Annunciazione della Collegiata di Pieve di Cento. Le ragioni del suo legame con Pellegrini non risultano chiare al momento, anche se la sua presenza nella documentazione del matelicese conferma la fitta trama dei rapporti che univa il vasto pubblico dei committenti del Guercino.
Le richieste di Pellegrini si intrecciano con quelle del conterraneo Benadduce Benadduci che ordina al Guercino, negli stessi anni, diversi dipinti: nel 1635 ritira una testa di Ecce Homo, al momento non identificata, nel 1636 il San Giovanni Evangelista recentemente riemerso all’attenzione della critica (collezione privata) e nel 1637 il quadretto con San Nicola da Tolentino (Loreto, Museo-Antico Tesoro della Santa Casa, deposito della Fondazione Cassa di Risparmio di Loreto)87. Già scorrendo queste prime commissioni risulta chiaro come il formato, il costo e il soggetto delle tele acquistate da Benadduci fosse perfettamente in linea e sul gusto di quelle richieste dall’amico Pellegrini. Il 6 dicembre del 1638 Benadduci versa 35 ducatoni (45 scudi) per una Lucrezia Romana che due anni più tardi donerà al cardinale Barberini con la mediazione del cardinal Sacchetti88. Un regalo di pregio evidentemente destinato a farlo progredire in carriera. Due anni dopo, il 18 agosto del 1640, Benadduce sceglie l’artista per un’impresa ragguardevole: la realizzazione della pala d’altare con l’Annuncio a Sant’Anna per la sua cappella privata nella chiesa di San Nicola a Tolentino89. Nel 1641 torna ai quadri da stanza richiedendo una Cleopatra, non ancora identificata, che gli costa 40 ducatoni90 mentre il 2 gennaio 1643 ricompensa il pittore con 40 scudi per aver terminato un San Matteo «principiato da Guido», che è andato distrutto quando era conservato a Palazzo Benadduci a Tolentino e del quale sopravvive una copia91. Risulta chiaro che Benadduci e Pellegrini oltre a scegliere soggetti simili, impegnarono Guercino soprattutto per opere di medie e piccole dimensioni, destinate alle loro raccolte conservate nei palazzi di famiglia a Matelica e Tolentino.
Al prestigioso entourage marchigiano dei Barberini apparteneva anche il cardinale di Caldarola Giovanni Battista Maria Pallotta (1594-1668) che nel 1632, nelle vesti di legato di Ferrara, versava al Guercino 300 scudi per il Damone e Pizia (oggi a Roma Palazzo Rospigliosi) che poi lasciò a papa Clemente IX92, mentre nel 1638 riceveva in dono dal dottor Antonio Fabri la copia del Cristo che scaccia i mercanti dal tempio fatta ritoccare al Guercino per 50 ducatoni, che Sir Denis Mahon identificava nel quadro oggi a Genova, Palazzo Rosso. Come attesta il Libro dei conti l’originale era stato pagato al maestro il 6 dicembre 1634 dal duca Francesco I di Modena93.
La quadreria appartenuta a Pallotta, documentata dagli inventari del 1647 e del 1668, dimostra i raffinati interessi del suo proprietario, il quale, come anche Pellegrini e Benadduci, agiva nel solco artistico dei Barberini, mentori e protettori della sua carriera94. Pallotta infatti era stato elevato alla porpora da Urbano VIII nel 1629 ma già in precedenza, nel 1626, si era recato come collettore apostolico in Portogallo e una volta rientrato il papa lo aveva nominato governatore di Roma. Com’è evidente si tratta degli stessi anni in cui prendono avvio le carriere dei due togati marchigiani, e lo stretto legame, almeno con Pellegrini, è confermato dal lascito testamentario che questi espresse a favore del cardinale, al quale donò un Sant’Agostino del Guercino, oggi non identificato95. A differenza di Pellegrini e Bennadduci che collezionano mezze figure o teste di santi e personaggi tratti dalla storia antica, Pallotta, in ragione anche dello status più elevato, preferisce quadri di soggetto storico o religioso, più grandi, complessi e costosi. Il Cristo che scaccia i mercanti dal tempio e Damone e Pizia, insieme alla Resurrezione di Lazzaro e a Clorinda libera Olindo e Sofronia di Mattia Preti sono un chiaro riferimento ai temi della giustizia e della religione «che divengono un tutt’uno nelle azioni di “sapienza” espletate dall’alto prelato in una serie innumerevole di circostanze, dalle legazioni pontificie al sostegno concreto dato ai giovani che aiuta a proprie spese negli studi teologici»96. Come ha osservato Stefano Papetti la raccolta del prelato, arricchita da prestigiose tele di Annibale e Ludovico Carracci, Calvaert, Guercino, Simone Cantarini, Alessandro Tiarini, Elisabetta Sirani, Domenichino, rispecchiava le sue frequentazioni bolognesi97. Anche Pellegrini e Benadduci come si è visto avevano le sostanze necessarie per mettere insieme una collezione di rilievo, sintonizzata sul gusto Barberini. Tuttavia, sorvolando sulle mode imperanti, a giudicare dalla continuità dei loro rapporti con la bottega del pittore e per via dei prezzi corrisposti, che in taluni casi sono ridotti rispetto alle tariffe correnti, appare fin troppo evidente come i due gentiluomini sembrino nutrire un interesse particolare per il pittore di Cento. Se le loro scelte ricalcano quelle della rete dei loro protettori e confermano in questo modo la stabilità dei loro rapporti interpersonali98, è evidente che il nucleo di sceltissimi dipinti dell’artista fosse l’asse portante delle loro collezioni e dimostrasse una sincera e genuina ammirazione per l’opera del Guercino.

APPENDICE DOCUMENTARIA a cura di Anna Rebecca Sartore

NOTE
[1] Sartore 2021. 

[2] La documentazione, pertinente ai secoli XVI e XVII, si conserva in 135 fascicoli presso l’Archivio di Stato di Roma, tra le carte del Definitorio Provinciale dei Carmelitani Scalzi, i quali, dopo aver acquisito l’eredità dei Pellegrini, fondarono un convento a Matelica dedicato ai Santi Valentino e Teresa. Roma, Archivio di Stato (d’ora in avanti ASRM), Enti religiosi soppressi, Carmelitani Scalzi di Santa Maria della Vittoria (d’ora in avanti Vittoria), Definitorio Provinciale, Fascicoli 269-404. Cfr.  Bufali 2009; Sturm 2015, pp. 329-330; Sartore 2021, p. 18.

[3] Malvasia 1678, II, pp. 264, 372. Sulla biografia del Guercino stesa da Malvasia Benati 2020, pp. 137-148. Sul Libro dei conti e sull’organizzazione della bottega Ghelfi 2019, pp. 59-67; Morselli 2020, pp. 99-106.

[4] Calvi 1808, pp. 37, 39, 45-48; Malvasia 1678 ed. 1841, II, pp. 307–386:308-309, 311, 319; Il libro dei conti del Guercino 1997, pp. 56, 63, 67-68, 92, 96-97, 99, 101, 105.

[5] Bonfait 1990, p. 78; Il libro dei conti del Guercino 1997, p. 38. Sui collezionisti del Guercino Morselli 2019, pp. 45-57.

61] Bufali 2009; Sturm 2015, pp. 329-330; Feci 2016, pp. 11-12, 16-18, 20, 27, 31-32, 36, 40-41.

[7] Feci 2016, p. 11; Sartore 2021, pp. 18-24.

[8] ASRM, Vittoria, Definitorio Provinciale, fasc. 269 bis, cc. 28-38; 49-65.

[9] ASRM, Vittoria, Definitorio Provinciale, fasc. 269 bis, cc. 34, 50.

[10] Fosi 2006, p. 575; Feci 2016, p. 36.

[11] ASRM, Vittoria, Definitorio Provinciale, fasc. 269 bis, c. 55. Cfr. D’Amico 2009, pp. 44-45.

[12] Costanza Pellegrini, una delle tre sorelle di Valentino, aveva sposato Antonio Benadduci di Tolentino, congiunto di Benadduce, famoso collezionista non solo di opere del Guercino ma anche di Guido Reni, per cui vedi infra nel testo. Per l’omaggio a Francesco Barberini Feci 2016, p. 39. Su Benadduci: Benadduci 1886; Mahon, Pepper 1997, pp. 178-187, con bibliografia.

[13] Vedi infra nel testo.

[14] Sartore 2021, pp. 18-19, 24-26.

[15] Ead., pp. 24-27.

[16] La nota di spesa per la pittura della galleria è annotata in una memoria tra le carte processuali esibite dai Manciforti contro i Carmelitani per calcolare l’impegno economico sostenuto da Valentino nella fabbrica del palazzo. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 404, c. n. n.; fasc. 356 q, c. n. n., Sartore 2021, p. 28 (Appendice Doc. III).

[17] Spada 2004, pp. 24, 57, 142-143 n. 158, 167 n. 352.

[18] La testimonianza risale al 6 marzo 1694, ASRM, Vittoria, Definitorio Provinciale, fasc. 368, c. 1r.

[19] Valentino terminava il proprio mandato di luogotenente criminale dell’ACil 18 novembre 1645. Forcella 1881, III, p. 341. ASRM, Vittoria, Definitorio Provinciale, fasc. 269 bis, cc. 43-48.

[20] Stipulato nel novembre 1647, il lodo di divisione dei beni Pellegrini consiste in un elenco di tutti i beni mobili, censi e stabili esclusivamente di Valentino. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 356 q, c. n. n; fasc. 269 bis, cc. 49-65.

[21] Già il padre aveva lasciato una casa posta di fronte al palazzo volta all’accoglienza dei padri gesuiti in quanto uno dei sette fratelli minori di Valentino, Alessandro, era nella Compagnia di Gesù. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 269 bis, cc. 59-69. Acquacotta 1838, p. 209.

[22] La presenza del quadro nella residenza romana del Pallotta è registrata nell’inventario post mortem del cardinale risalente al 1668, ma se ne sono poi perse le tracce. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 269 bis., c. 55. Cfr. D’Amico 2009, pp. 44-45. 

[23] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 269 bis, c. 59.

[24] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, cc. 2v-24r (Appendice Doc. II).

[25] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, cc. 14rv (Appendice Doc. II).

[26] Per esempio, i due quadri di Mario Nuzzi sono registrati nella galleria del palazzo già nel primo inventario, compilato con buona probabilità nel maggio 1646. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 338 a, c. 31r. (Appendice Doc. I)

[27] Solo due dipinti tra quelli elencati non fanno parte del lascito testamentario del Pellegrini, ovvero un «quadro di S. Teresa avanti un Christo con la croce in spalla» e un «quadro di S. Teresa con la Madonna, il Bambino e diversi putti». ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 404, c. n. n. (Appendice Doc. III).

[28] La pianta consiste nel rilievo – a penna e inchiostro bruno – delle murature preesistenti del piano nobile a cui si sovrappone il progetto – tracciato a lapis – dell’ampiamento realizzato a partire dall’estate del 1728. Il foglio è ad oggi smembrato, conservandosi solo la parte che ritrae l’ala settentrionale dell’edificio. È stato però possibile ricostruirne l’intero in base a una fotografia scattata intorno agli anni Settanta che mostra la parte del foglio mancante. Entrambi i documenti si trovano nell’Archivio del Museo Piersanti che necessita di riordino e inventariazione. Trecciola 2008 pp. 30-32; Sartore 2021, pp. 31-35.

[29] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, cc. 3v-19r (Appendice Doc. II). Trecciola 2008, pp. 29-35, Sartore 2021, pp. 39-43.

[30] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 338 a, c. 30v (Appendice Doc. I).

[31] La «stanza contigua» a quella «di cantone verso la chiesa di Sant’Agostino» era tappezzata da sei arazzi alti «cinqu’ale, di boscaglie, animali, e figure piccole» di proprietà di Valentino. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 338 a, c. 30r (Appendice Doc. I).

[32] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 338 a, c. 2v; fasc. 270 b, cc. 5r-6r (Appendice Docc. I, II).

[33] Nel Libro dei conti la caparra della «Madonna con puttino in ovado» è annotata il 17 febbraio 1639, mentre il saldo risale al 26 settembre dello stesso anno per un pagamento totale di 104, 5 scudi. La «testa di San Paolo» è indicata come ancora «da farsi» nella registrazione dell’acconto di 27,5 scudi il 7 giugno 1639. L’anticipo per il San Filippo Neri è versato invece il 19 maggio 1640 e il saldo finale è registrato il 7 gennaio 1641; l’opera è pagata in tutto 64, 5 scudi. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, c. 5r; Il libro dei conti del Guercino 1997, pp. 96, 99, 101, 105 (Appendice Doc. II).

[34] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 404, c. n. n. (Appendice Doc. III).

[35] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, c. 5r; Il libro dei conti del Guercino 1997, p. 56 (Appendice Doc. II).

[36] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 404, c. n. n. (Appendice Doc. III).

[37]Il libro dei conti del Guercino 1997, p. 92.

[38] Id., n. 174.

[39] Nell’inventario del 1646 la «Giuditta, et altre figure con cornici nere intarsiate d’oro» è nel salotto ma non è inserita tra le opere di proprietà di Valentino, mentre in quello del 1648 è indicata come di sua proprietà, ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, 338 a, c. 2v; fasc. 270 a, c. 6v; fasc. 404, c. n. n. (Appendice Docc. I, II, III).

[40] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, 338 a, c. 30r; fasc. 270 a, c. 6v; fasc. 404, c. n. n. (Appendice Docc. I, II, III).

[41] Potrebbe trattarsi di una replica della Resurrezione di Lazzaro di Jacopo Tintoretto, un tempo al Kimbell Art Museum di Forth Worth, quindi venduta da Sotheby’s New York nel maggio 1994, Mormando 2000, p. 626, nota 7, 628 con bibliografia precedente. Per i documenti citati, ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 338 a, c. 30r; fasc. 270 a, cc. 7v-8r; fasc. 404, c. n. n. (Appendice Docc. I, II, III).

[42] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, c. 8r (Appendice Doc. II).

[43] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, c. 8v; fasc. 404, c. n. n. (Appendice Docc. II, III).

[44]Sull’opera dell’Albani vedi infra nel testo. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 338 a, c. 31r (Appendice Doc. I).

[45] Per il dipinto Paolo Antonio Barbieri registrava una caparra di 19 scudi e mezzo il 26 luglio 1632. Il 12 settembre successivo annotava il versamento del saldo per la natura morta con i pesci assieme alla caparra di un’altra «de fruti». Il libro dei conti del Guercino 1997, pp. 67-68. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, c. 13v (Appendice Doc. II).

[46]Il libro dei conti del Guercino 1997, p. 68; ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, c. 14r (Appendice Doc. II).

[47] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 338 a, c. 31v; fasc. 270 a, cc. 13v-14v (Appendice Docc. I, II).

[48] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, cc. 13v-15r (Appendice Doc. II).

[49] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 270 a, cc. 15r-22v (Appendice Doc. II).

[50] L’atto di rinuncia risale all’11 marzo 1677. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 313.

[51] Acquacotta 1838, p. 210.

[52] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 356 e, cc. 4v, 6v. Trecciola 2008, pp. 24-26; Sartore 2021, pp. 37-38.

[53] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 319. Sturm 2015, p. 329, nota 7.

[54] L’istrumento di transazione tra le due parti in causa fu stipulato a Roma il 25 settembre 1706. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 404 a, c. n. n. (Appendice Doc. III)

[55] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 367; fasc. 404 a, c. n. n. (Appendice Doc. III)

[56] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 356 o, c. n. n.

[57] Per le fasi costruttive dell’insediamento matelicese si rimanda a Sturm 2015, che però attribuisce erroneamente il progetto a Giovanni Battista Bartoli. Dai registri di spese dei Carmelitani si desume il coinvolgimento di Buratti che si recò a Matelica più volte tra il 1694 e il 1702 e realizzò i disegni che ancora si conservano tra le carte del Definitorio Provinciale degli Scalzi. ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 437, cc. 2v, 3r, 5r. Sturm 2015, pp. 329-342. Buratti è già segnalato in Bufali 2009.

[58] Le opere erano indicate come «duos […] pictura venerea, altera certi auctoris Albani, et altera ut fertur, sed incerti, eiusdem Albani, aut eius discipolorum». Nello stesso anno venivano alienati alcuni parati dei Pellegrini mentre gli «argenti vecchi dell’eredità» erano fusi per «la fattura di vasi sacri per la chiesa». ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 437, cc. 6, 13; fasc. 438, cc. 1v; fasc. 440 c. n. n. Per la supplica volta alla vendita dei due dipinti vedi: fasc. 419, c. n. n. (Appendice Doc. III).

[59] Si consideri che nel 1684 il valore del palazzo era stimato 5000 scudi. ASRM, fasc. 404, c. n. n., Trecciola 2008, pp. 29-30; Sartore 2021, p. 39 (Appendice Doc. III).

[60] Cegna, Rotili 1998, pp. 21-23; Trecciola 2008, pp. 5-7, 120-131; Sartore 2021, pp. 38-43; Biocco 2021, pp. 58-65.

[61] Di Biase 1998, p. 473.
[62] Il dipinto a olio su tela (97 x 133 cm) potrebbe identificarsi con una delle «tempeste di mare» citate nell’inventario Pellegrini del 1648. L’attribuzione ad Agostino Tassi è stata avanzata da Angelo Antonelli e confermata da Silvia Blasio. Bigiaretti 1997, pp. 92,116; Blasio 2021, pp. 157-173.
[63] Il primo a lavorare per le Marche fu Annibale Carracci che nel 1596 eseguì per la Santa Casa di Loreto la Natività della Vergine (Parigi, Louvre). A Fano nel 1618 Domenichino realizzava nella cappella Nolfi, in Duomo un ciclo di affreschi dedicati alla Vergine. Per San Pietro in Valle a Fano Guido Reni dipinse un’Annunciazione (1621, Fano, Pinacoteca civica) e la Consegna delle chiavi (1626, Parigi, Louvre), la Madonna col Bambino e i santi Tommaso e Girolamo la eseguì per l’altare della famiglia Olivieri nel Duomo di Fano (1632, oggi Pinacoteca Vaticana) mentre un’altra Annunciazione la inviò ad Ascoli Piceno (oggi nella locale Pinacoteca Civica). In territorio marchigiano si conservano anche tre importanti pale d’altare di Giovanni Lanfranco: la Pentecoste (Fermo, Pinacoteca comunale) commissionata da Torquato Nobili per la chiesa di San Filippo, la Madonna col Bambino e santi del Duomo di Ripatransone e il Transito della Vergine di Macerata, richiesta da Flaminio Razzanti per la propria cappella in San Giovanni. Lavorò per Fano anche Alessandro Tiarini. Zampetti 1990, pp. 353-358; Ambrosini Massari 2011.

[64] Il Guercino 1968; Salerno 1988, Giovanni Francesco Barbieri 1991; Polverari 1991.

[65] Per una precisazione sui legami di parentela vedi Feci 2016, pp. 1-44: 32-33. La sorella di Valentino sposò Antonio Benadduci, congiunto di Benadduce.

[66] Feci 2016.

[67] Feci 2016, pp. 11-12, 17-18.

[68] Feci 2016, pp. 11, 12, 14, 16.

[69] Benadduci scomparve prematuramente a Bologna il 6 giugno 1643, Benadduci 1886, 12; Feci 2016, p. 17.

[70] Feci 2016, pp. 17 e 18. Argoli ottenne dal Guercino una coppia di dipinti, Ercole e la Regina Artemisia, pagati ciascuno 80 scudi (poco più di 60 ducatoni) il 16 marzo e il 24 agosto 1642, Il libro dei conti del Guercino 1997, nn. 271 e 280. Si vedano Di Penta 2004; Turner 2017, nn. 281 II, 282, per la bibliografia completa e la discussione sull’identificazione dell’Ercole (la Regina Artemisia è perduta, ma secondo Turner si possono ricondurre alla commissione un disegno e un’incisione). Per Turner Ercole venne acquistato per essere regalato ai Barberini dal vicelegato di Bologna il cardinale Cesare Raccagna. Il 24 dicembre 1644 Argoli, che all’epoca era auditore del Torrone, versa 55 ducatoni (68 scudi) per l’Endimione (Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 322, Malvasia 1678 ed. 1841, p. 266 parla di un Endimione dormiente). Per la bibliografia completa e le proposte di attribuzione si vedano sempre Di Penta 2004 e Turner 2017, n. 339. Probabilmente prima del 1651 Argoli lo donò a Camillo Pamphilj.

[71] Feci 2016, p. 27.

[72] Feci 2016, pp. 36, 37.

[73] Feci 2016, p. 40.

[74] Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 10, il quadro non viene citato da Malvasia.

[75] Un San Francesco viene citato nel 1694 tra i dipinti già Pellegrini destinati ai carmelitani.

[76] Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 42; Turner 2017, n. 182.

[77] Per le notizie sul dono Medici 1886, pp. 36-37.

[78]Il libro dei conti del Guercino 1997, p. 63. Sulla collezione di Ottavio Corsini, Pellicciari 1997, pp. 377-388: 382, 387.

[79] Ghelfi 2019, p. 63.

[80] Il libro dei conti del Guercino 1997, nn. 57, 61, 63. Non identificati.

[81] Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 174.

[82] Il 7 giugno 1639Pellegrini versa 25 reali (27 scudi e mezzo) per la testa di San Paolo (Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 197).

[83] Il libro dei conti del Guercino 1997, nn. 190, 206.

[84] ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 367; fasc. 404 a, c. n. n. (Appendice Doc. III).

[85] Il libro dei conti del Guercino 1997, nn. 218, 236.

[86] Quando Malvasia cita Valentino Pellegrini, sbaglia in due occasioni: ricordando il Salvatore fatto a Valentino «Pellegri» e quando a proposito del San Filippo Neri lo chiama Palantiero anziché Valentino, segno che probabilmente non lo conosceva affatto (o che aveva mal interpretato gli appunti che gli erano stati forniti dai Gennari).

[87] Il libro dei conti del Guercino 1997, nn. 108, 133, 141. Dell’Ecce Homo non si hanno notizie, Benadduci 1886; Turner 2017, n. 220II; per il San Nicola, Turner 2017, n. 222, cm 68 x 56.5, con bibliografia precedente; Salis 2017.

[88] Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 185. Turner 2017, n. 244, ipotizza possa trattarsi di una Lucrezia oggi in collezione privata. Simona Feci ha reso noto lo stralcio di una lettera scritta da Giulio Sacchetti l’11 luglio 1640: «Molt’ill.re sig., dall’aggiunta responsiva dell’em.mo sig. card. padrone comprenderà VS con quale aggradimento verso di lei habbia da me ricevuto il quadro della Lucretia, che a suo nome gli ho recapitato». Tolentino, Archivio Benadduci, Faldone IX, pos. 4, c.n.n.; Feci 2016, p. 39.

[89] Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 223; Turner 2017, n. 260, con bibliografia precedente.

[90] Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 252. Si veda anche Benadduci 1886.

[91] Mahon, Pepper 1997, pp. 182-184.

[92] Per una recente completa ricostruzione delle vicende critiche dell’opera Turner 2017, n. 183.

[93] Nel 2013 è riemersa una seconda versione della composizione di proprietà Coll & Cortés Fine Arts. Per le notizie sui dipinti si vedano Salerno 1988, n. 154; Il libro dei conti del Guercino 1997, n. 184; Guercino 2013; Turner 2017, n. 207 I.

[94] D’Amico 2009, pp. 41, 43.

[95] Nel 1649, alla morte di Pellegrini era ancora nel palazzo di Matelica: «un altro quadro mezzano con cornici tutte dorate di S. Agostino scrivente, destinato in dono dalla buona memoria del detto Signor Valentino all’Eminentissimo Signor Cardinale Pallotta», ASRM, Carmelitani Scalzi, Vittoria, fasc. 269 bis, c. 55. Il Sant’Agostino è registrato nell’inventario post mortem del cardinale (1668) come «quadro in tela da testa di sant’Agostino con cornice tutta dorata», D’Amico 2009, p. 45.

[96] Papetti 2009, p. 43

[97] Papetti 2009.

[98] Papetti 2009, p. 69.


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ENGLICH ABSTRACT
The painting collection of Valentino Pellegrini, a criminologist of the Marches at the service of the Barberini family. Documentary news on a Guercino collector

Thanks to the publication of some unpublished documents, the contribution brings to light the value, consistency and importance of the painting collection belonging to Valetino Pellegrini († 1648), a magistrate and criminologist at the service of Pope Urban VIII and faithful client of Guercino. In addition to proposing the identification of some valuable paintings belonging to Pellegrini, once set up in the family palace in Matelica, the authors reconstruct the network of relations concerning Guercino’s clientele of the Marches: in this regard is re-examined the relationship between the painter from Cento and the criminologist from Tolentino, Benadduce Benadduci (1601-1643), who was bound to Valentino Pellegrini, and Cardinal Giovanni Battista Maria Pallotta (1594-1668), prominent collectors who shared the regular attendance to Barberini’s entourage, therefore the same social network and a similar artistic culture. 

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