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Cinque stanze per Giovan Battista Trotti

Beatrice Tanzi

Scritto da:

Beatrice Tanzi

Malosso a Budapest («l’ha già detto Cirillo!»)
Peccato che in realtà si tratti, con chiarezza esplicita, di Giovan Battista Trotti detto il Malosso,
come potrà confermare un qualsiasi conoscitore di pittura cremonese.
Giuseppe Cirillo

L’esergo, in questo caso, è per chi scrive più che per chi legge: alla fine del mio lavoro, dopo avere studiato per bene la smagliante tavoletta che si pensava rappresentasse Sant’Egidio (Figg. 1, 7) del Szépművészeti Múzeum di Budapest (inv. 995), convinta di avere fatto una grande scoperta da conoscitrice più o meno in erba, qualcuno in casa mi dice: «hai guardato se ne parla Cirillo?».[1]

FIG. 1. Giovan Battista Trotti detto il Malosso, San Bassiano (?), Budapest, Szépművészeti Múzeum (© The Museum of Fine Arts Budapest, Foto Jozsa Denes / Scala, Firenze).

E Cirillo infatti ne aveva già parlato, nel 2006, con la puntualità di una sentenza: e quello è, appunto, l’esergo; poche righe secche e precise, taglienti come, sempre in casa, mi dicono essere il personaggio, niente riproduzione.[2] Non mi sono persa d’animo e ho con pazienza ripreso il mio intervento, un taglio qui, un’aggiustatina lì, con due convinzioni in testa, la prima che il quadretto è affascinante e merita una lettura più approfondita, e – certo più importante – che io ne ho comunque tratto un insegnamento che non dimenticherò tanto facilmente: ho imparato che, metaforicamente, per certi argomenti, bisogna sempre “guardare Cirillo” o chi per lui; anche se, come si vedrà, non si tratta soltanto di una questione attributiva. Sperando che i lettori non rimangano delusi dal mancato inedito, riparto dall’inizio.

Fig. 8. Giovan Battista Trotti detto il Malosso, Madonna del Rosario con San Domenico e un Santo vescovo (Bonaventura?), collezione privata (Brescia, Foto Rapuzzi).

Sfogliando la monografia dedicata da Elisabetta Fadda nel 2004 a Michelangelo Anselmi mi sono imbattuta nell’immagine di una tavoletta raffigurante Sant’Egidio in un ampia e luminosa apertura di paesaggio, riprodotta in bianco e nero a piena pagina, a fronte di un altro dipinto di dimensioni analoghe, giudicato su tavola ma eseguito su tela, con Cristo e la Samaritana (Fig. 6), conservato a Burghley House, presso Stamford, nel Lincolnshire (inv. PIC420).[3] La studiosa dedica due schedine anagrafiche sbrigative ai due dipinti, ma già la scelta di riprodurle a fronte consente subito di rendersi conto che non si tratta della stessa mano: se il Cristo e la Samaritana è a tutti gli effetti un’opera tipica del pittore parmense, il Santo di Budapest è indubitabilmente del Malosso, Giovan Battista Trotti, cremonese. Uno sguardo alla bibliografia, che definire scarna è un eufemismo, è il primo passo: nell’inventario del 1820 e nelle varie edizioni del Catalogue de la Galerie des Tableaux de Son Altesse le Prince Paul Eszterházy de Galantha à Vienne (in questo caso ho consultato quella del 1844), quando il dipinto è ancora nella dimora viennese del principe magiaro, l’attribuzione è a Federico Barocci; pochi anni dopo, nel 1869, sarà declassato a «Schüler des Baroccio» da Otto Mündler, quando il conoscitore tedesco è a Pest, incaricato della stima della raccolta in vista dell’acquisto da parte dello stato ungherese, formalizzato l’anno successivo.[4] Nel 1967 Andor Pigler lo accosta più genericamente a «Mittelitalienisch 1. Hälfte des 17. Jhs.» e in anni più recenti Vilmos Tátrai ne anticipa abbondantemente la cronologia proponendo con qualche cautela il nome di Michelangelo Anselmi, al quale si accoda la Fadda nella sua monografia.[5]

In questa circostanza non devo fare sfoggio di doti di connoisseurship particolarmente vivaci: il Cinquecento a Cremona è un secolo di problemi attributivi che hanno innescato vere e proprie guerre di religione tra storici dell’arte nel corso del Novecento, ne ho testimonianze dirette, appunto, anche in casa. Si sono sbranati sul dualismo tra Altobello giovane e Romanino, su quello tra Altobello tardo (ancora lui!) e Gianfrancesco Bembo, su un certo momento in cui i fratelli Giulio e Antonio Campi sembravano quasi indistinguibili l’uno dall’altro, sul prepotente ingresso negli studi di fine millennio di Antonio Maria Viani, quale autentico deus ex machina a cui poter assegnare tutto e il contrario di tutto, tra Cremona e Mantova. Ma su Malosso no: su Malosso credo che nessuno si sia mai potuto accapigliare in quella eccentrica banda di studiosi litigiosi e dispettosi. Giovan Battista Trotti è, caso più unico che raro, il pittore più riconoscibile e rasserenante della tarda maniera cremonese e uno non deve per forza essere dotato di un occhio tanto acuto e attrezzato per individuarlo: è davvero un gioco molto facile. Qualche problemino, se mai, arriva quando l’artista comincia ad appaltare le sue torrenziali commissioni a una non meno sterminata quanto mimetica bottega: ma sull’argomento sta lavorando con tenacia e profitto Raffaella Poltronieri, che al Malosso ha appena dedicato un accurato e atteso volume.[6]

Le potenzialità di internet al tempo della monografia della Fadda non erano ancora quelle attuali: se ora invece si digita “Michelangelo Anselmi” su Google Immagini le due opere sono vicinissime a colori e, come dire, parlano da sole; uno smagliante Malosso e un delizioso Anselmi. Di dimensioni più o meno analoghe, solo leggermente più piccola la tela inglese (47,5 x 39 cm), coloratissimi, sono due piccoli capolavori per ispirazione e qualità esecutiva, diversissimi l’uno dall’altro, dei rispettivi autori, accomunati soltanto dalla messa in scena delle figure in ambientazioni paesistiche di grande e smagata suggestione, eseguiti, anno più anno meno, a quasi settant’anni l’uno dall’altro (Malosso nasce nel 1555, Anselmi muore nel 1556). Vorrei riproporre quindi il confronto fotografico, questa volta, appunto, a colori e nella sequenza cronologica corretta (Figg. 6-7), evidenziando i caratteri delle due opere, con qualche aggiornamento bibliografico, o meglio, con il riesame di una serie di voci che non erano state considerate in precedenza.

Anche nella concezione del paesaggio, comunque, si sfidano due approcci molto distanti che bene si comprendono alla luce dell’ampia forbice cronologica che separa i due quadretti: quello di Anselmi rientra a pieno nella tradizione parmense che segue da presso Correggio e Parmigianino, in atmosfere rarefatte impreziosite da una stesura liquida e fremente grazie a una tavolozza brillante, ricca e raffinata; mentre quello del Malosso parte dalle fronde ombrose per poi immergersi nelle lontananze azzurrine e negli artifizi del paesaggismo nordico, alla Paul Bril, per semplificare, o meglio, per restare tra Cremona e Parma negli stessi anni, alla Jan Soens; strepitosi intrichi boschivi, toni freddi e non meno eleganti ma strettamente vincolati a esperienze ben più avanzate nel corso del Cinquecento e decisamente alla moda a partire dall’ultimo quarto. Banalizzando un po’ con l’accetta, tutti gli inserti paesaggistici dell’Anselmi si rifanno al modello della teletta di Burghley House, esattamente come tutti quelli del Malosso si adeguano al prototipo che impronta la tavoletta di Budapest; la loro attività è significativamente e rispettivamente marcata da caratteristiche molto diverse quanto, per ognuno dei due, estremamente peculiari.

Vado più a fondo con il presunto Sant’Egidio dello Szépművészeti Múzeum per sostanziare il riferimento a Giovan Battista Trotti, come se non sapessi (e non sapevo davvero, mea maxima culpa) dell’intervento di Giuseppe Cirillo. Come altri ha già scritto:

Diversamente dai cremonesi suoi contemporanei, Giovan Battista Trotti è uno degli artisti più importanti tra Lombardia ed Emilia negli anni di passaggio tra Cinquecento e Seicento, ha una rete di committenze ecclesiastiche di primo piano, dai canonici lateranensi agli eremitani, dai cappuccini ai domenicani, dai somaschi ai teatini, che veicola suoi dipinti da Assisi al Ponente ligure. Compie soggiorni a Brescia, Venezia, Genova, Alessandria, Milano, Lodi, Pavia, Parma e Piacenza, spesso per lavori rimarchevoli, come la decorazione della cappella del Venerabile nel Duomo di Salò e delle due dedicate all’Immacolata Concezione rispettivamente in Sant’Agostino e in San Francesco a Piacenza; mentre l’attività di architetto è documentata, tra l’altro, per i somaschi di Salò, per i progetti del Duomo nuovo di Brescia e per l’altare del Santissimo Sacramento nel Duomo di Cremona. Nella città natale, dalla fine dell’ottavo decennio, le maggiori imprese passano attraverso il suo diretto controllo anche se sono spesso smistate a collaboratori ligi alla sua maniera sino allo sfinimento […].[7]

Malosso è un abilissimo architetto nelle impaginazioni spesso complesse e affollate dei suoi dipinti; si conosce un numero relativamente esiguo di opere di piccole dimensioni e, una volta restituitagli la tavoletta di Budapest, verrebbe da dire “sfortunatamente”, perché questa rappresenta piccolo luminoso capolavoro in cui la raffinatezza pittorica impreziosisce una composizione semplificata all’essenziale: il vegliardo in abito vescovile tiene con salda solennità la zona di destra completamente immerso nel paesaggio: ai suoi piedi la mitria e il pastorale e, accoccolato, il tenero cervo disneyano. Ma piviale, mitria e pastorale poco si addicono a un abate in romitaggio in Settimania, quanto piuttosto a un vescovo: quello effigiato infatti più che Egidio sembrerebbe essere Bassiano (o Bassano, soprattutto a Cremona), protovescovo di Lodi e amico di Ambrogio di Milano. Nella romanzata Vita Sancti Bassiani episcopi et confessoris, dell’XI secolo, è riportato l’episodio di una cerva che si rifugia ai piedi del santo insieme ai suoi due cerbiatti per trovare rifugio dall’assalto dei cacciatori; così, nell’iconografia, Bassiano è raffigurato con le insegne episcopali e ha per attributi uno o più cervi: nel nostro caso non una cerva ma evidentemente un maschio, riconoscibile dal palco. Un santo particolarmente venerato in Lombardia e anche a Cremona, dove esiste ancora la chiesa – che dava il nome a un rione, un tempo malfamato, della città – eretta nel XII secolo e ricostruita nel 1592.[8]

Per confermare l’attribuzione al cremonese ho scelto una serie di volti dal suo campionario più tipico (Figg. 2-3), quelli del San Girolamo nella Deposizione della Pinacoteca di Cremona (inv. 124) e di uno dei Profeti affrescati nella cappella dell’Immacolata Concezione in San Francesco a Piacenza, quello per cui si conosce un bellissimo disegno preparatorio agli Uffizi (inv. 778 E).[9] Sono entrambe opere del 1599, una data che bene si addice, senza addentrarsi troppo a fondo nella cronologia malossesca, anche al dipinto in esame. Per quanto riguarda la tipologia del paesaggio “azzurrino” e fiammingheggiante, il repertorio e dei riferimenti ha estremi cronologici più ampi, a partire dall’Adorazione del nome di Dio con i Santi Francesco e Bonaventura del 1583 ora in San Pietro al Po (Fig. 4) alla “Cremona guerriera” e alla pala Cambiaghi della Pinacoteca (invv. 136, 116), degli anni novanta; ma vorrei ricordare il dettaglio suggestivo dell’Annunciazione del Duomo (Fig. 5), tradizionalmente datata intorno al 1594, con la radura ombrosa abitata da San Sebastiano in un placido martirio e da un assonnato Battista che indica l’agnello e fatica a tenere su la testa.[10] Senza dimenticare il paesaggio al centro della paletta già in collezione Cavalcabò a Cremona raffigurante la Madonna del Rosario con San Domenico e un Santo vescovo (Fig. 8), che indossa un piviale dorato e damascato, con gli stessi lustri e le stesse pieghe di quello del santo Eszterházy, sopra il saio dei frati minori osservanti e che credo possa essere identificato, pur essendo privo del galero, nel Doctor Seraphicus San Bonaventura da Bagnoregio.[11] Quest’ultimo dipinto mi pare in grande sintonia stilistica con l’operina magiara: vi compare la medesima attrezzeria di bottega di paramenti liturgici e occhieggia perfino, sia sotto l’abito talare del vescovo lodigiano che sotto il saio del vescovo francescano, la punta vellutata delle pantofole rosse. Per tutte queste suggestioni e i confronti con le opere finora menzionate credo che anche il santo di Budapest si possa collocare con un certo agio nell’ultimo decennio del Cinquecento.

Torniamo ora, solo per un momento, alla teletta con Cristo e la Samaritana di Burghley House, che fortunatamente non ha alcun problema di attribuzione né di iconografia, ma che, nella monografia del 2004, è giudicata inedita sulla sola base di una foto del Courtauld Institute, considerata tavola, senza alcuna indicazione su misure e provenance.[12] L’opera, tuttavia era già stata correttamente riferita oralmente a Michelangelo Anselmi nel 1983 da un grandissimo conoscitore come Philip Pouncey, quindi esposta tra il 1995 e il 1997 in una mostra itinerante in cinque musei degli Stati Uniti, oltre che alla National Gallery of Scotland a Edinburgo, dedicata ai dipinti italiani della collezione inglese, corredata da una schedina di Hugh Brigstocke con tutte le notizie e la bibliografia ottocentesca.[13] Fu acquistata dal IX conte di Exeter, Lord Burghley, Brownlow Cecil (1725-1793), convinto che in precedenza fosse appartenuta al cardinale Mazzarino, come attesta un’iscrizione sul verso, riportata anche nell’edizione di proprietà del conte e da lui annotata dell’Abecedario pittorico di Pellegrino Orlandi: «Christ and the Woman of Samaria by Giulio Romano formerly in Cardinal Mazzarenis collection is now at Burghley».

Questo nella bibliografia precedente il 2004: negli anni più vicini a noi, poi, le ricerche di Davide Dossi hanno portato altri importanti tasselli alla sua vicenda collezionistica.[14] Lo studioso è riuscito a ricostruire la storia del Cristo e la Samaritana a partire dalla collocazione seicentesca nella raccolta veronese dei fratelli Giacomo e Paolo Muselli: nell’inventario del 1662 porta già il corretto riferimento a Michelangelo Anselmi («La Samaritana con un vaso al pozzo: N. S. sedente che l’ammaestra, figure d’un braccio intiere di Michel’Angelo da Siena altrimenti detto il Mecarino»), mentre in quello del 1680 circa è promosso al nome, assai più appetibile sul mercato internazionale dell’epoca, del Tintoretto.[15] Tra il 1685 e il 1686 i fratelli vendono la collezione a Jean-Baptiste Colbert, marchese di Seignelay (1651-1690), figlio del grande Colbert, “Contrôleur général des finances” di Luigi XIV e uomo di fiducia del cardinal Mazzarino; un fatto che può spiegare gli appunti, non meno promozionali vergati da Brownlow Cecil e ricordati poc’anzi. Dopo essere transitato nella collezione Colbert, il quadro ricompare con l’attribuzione a Giulio Romano nel 1767 alla vendita parigina dei beni di Adrien Maurice de Noailles, III duca di Noailles (1678-1766), diplomatico e militare, “Maréchal de France” (la più alta distinzione militare francese), anch’egli tra l’altro “Contrôleur général des finances”.[16] E non mi avventuro in eventuali intrecci dinastici tra Colbert e Noailles che potrebbero giustificare il travaso dall’una all’altra raccolta. Lo acquisisce il pittore e mercante Vincent Donjeux, di una certa fama in quegli anni a Parigi, il quale lo rivende senz’altro prima della morte, avvenuta il 10 marzo 1793, perché la tela non compare tra le opere di sua proprietà, andate all’asta il 29 aprile dello stesso anno.[17] È verosimile quindi, senza ulteriori pezze d’appoggio documentarie, che sia stato Donjeux a vendere la brillante teletta di Michelangelo Anselmi a Lord Burghley.

Malosso farnesiano

Restiamo a Parma, dove Malosso passa gli ultimi tre lustri della propria vita: alla corte ducale, tra Parma e Piacenza, dove aveva già lasciato importanti testimonianze ancora prima di entrare al servizio di Ranuccio, ottiene un numero ingente di commissioni religiose e profane e non esclusivamente pittoriche.

[…] dal 1604 è a Parma, al servizio di Ranuccio I Farnese, alla corte del quale intreccia contatti con artisti e letterati. È in rapporto, tra gli altri, con Federico Zuccari che gli dona, probabilmente nel 1608, una copia fresca di stampa dell’Idea dei Pittori, e appronta una serie di lavori che relegano in secondo piano la pittura da cavalletto per dedicarsi ad apparati effimeri, progetti architettonici e di arredo, «giostre», «macchine», «mascherate», banchetti, feste, decorazione di barche, illustrazioni di libri; ma non tralasciando le commissioni pittoriche ducali come diversi ritratti e gli affreschi profani nel Palazzo del Giardino. L’attività per i Farnese è premiata nel 1609 dalla concessione del titolo di Sacri Lateranensis Palatii Comes, Miles et Eques auratus, e infatti nei dipinti successivi a questa data il pittore accompagna alla propria firma la qualifica di Eques.[18]

Il pionieristico studio di Amedeo Ronchini ha fatto da viatico a tutte le ricerche successive, delle quali ancora una volta è stato spesso protagonista, con Giovanni Godi, Giuseppe Cirillo, cui si deve una mole ingente di ritrovamenti tra dipinti e disegni collegati alle imprese farnesiane, mentre sul versante documentario, vanno ricordati i contributi di Federica Dallasta e Alberto Cadoppi.[19]

Si è fatto cenno molto brevemente in precedenza al rapporto tra Giovan Battista Trotti e Jan Soens, il pittore di ’s-Hertogenbosch attivo nel ducato dal 1575, ed è ancora una volta Giuseppe Cirillo, con Giovanni Godi, ad avere attribuito al brabantino una notevole tela con Cristo mostrato al popolo (Fig. 9) della Pinacoteca Stuard di Parma (inv. 92), nella quale scorgono affinità stilistiche con il cremonese.[20] Vorrei spingermi oltre e attribuire il dipinto parmense al Malosso in persona, riprendendolo ancora per un attimo in esame, perché ho l’impressione che nessuno se ne sia più occupato dal 1987. Eppure la tela riveste un ruolo del tutto particolare, a mio avviso, nella produzione del pittore e incarna un aspetto del rinnovamento, niente affatto scontato, del suo periodo estremo. Un quadro da stanza a mezze figure svolto in orizzontale, in poche parole “moderno”, come non ne ha mai dipinti in altri momenti della sua vita, un close-up pienamente seicentesco che risente in maniera tangibile del clima che si respira nell’ambiente farnesiano. A monte di una simile composizione, affollata e compressa, non può che esserci la conoscenza diretta delle opere del bolognese Leonello Spada, che è entrato il 30 aprile 1616 «alli servitii del serenissimo signor Duca di Parma» e che condivide con Malosso – e con varie squadre recalcitranti di pittori bolognesi, cremonesi, piacentini, ferraresi e parmigiani – la partecipazione al cantiere della decorazione del teatro.[21] I due si trovano fianco a fianco nel 1618 sui ponteggi del soffitto, Malosso da luglio è malaticcio e morirà l’11 giugno del 1619. Non volendo limitare lo spazio temporale dei possibili contatti tra i pittori, anche senza volersi spingere fino a Bologna, basta ricordare che Leonello dal novembre 1614 è impegnato nella vicina Reggio nella grande impresa della Ghiara, che ha legami importanti con l’aristocrazia romana ed è da poco rientrato da un prolungato soggiorno a Malta. Anche non volendo evocare il nome di Caravaggio invano, c’è davvero parecchio per incuriosire il Malosso; e i quadri a mezze figure dello Spada sembrano colpire l’immaginario dell’attempato cremonese. Gli assembramenti di personaggi con elmi e armature, turbanti e pennacchi che ornano volti sovreccitati non rappresentano certo una novità: negli anni novanta del Cinquecento, a Cremona, gli sgherri ai piedi della Resurrezione ora in Duomo (Fig. 11) o gli astanti al Miracolo di San Giacinto (Fig. 10) ora in Pinacoteca (inv. 115) ne sono esempio lampante, ma salgono ancora più di tono nelle opere dell’ultimo decennio della sua vita, come nella Comunione degli apostoli in Santo Stefano a Casalmaggiore (Fig. 12) e il San Domenico e il rogo dei libri eretici eseguito per i Cappuccini di Fontevivo e rimasto incompiuto nella casa del pittore al momento della sua morte (ora a Verona, nel Museo degli affreschi “G. B. Cavalcaselle”, inv. 5883-1B758).[22]

Ma i tratti somatici dei protagonisti del Cristo mostrato al popolo rientrano in un repertorio tipologico e fisionomico che si incontra di continuo per tutta la carriera del Malosso e così i particolari più minuti, conformazione delle mani, alla Bernardino Campi ma sempre un filo meno morbida, più legnosa; nasi adunchi, labbra carnose, occhi spalancati; solo il volto di Cristo, terribilmente smorto, si distacca dai modelli consueti ma come per una sorta di eccesso di patetismo. Questi personaggi, tuttavia, non si accompagnano a quelli inseriti nei dipinti religiosi del collega brabantino, nelle pale della Pilotta (inv. GN 119, GN 205), della Steccata o di Fontanellato, solo per citare le più note, ma nemmeno agli altri nei quadri sacri e profani dominati dal paesaggio o in quella variegata rassegna di volti che affolla la grande Tabula Cebetis di Capodimonte (inv. Q 1930, n. 1061). Nella tela Stuard i lineamenti dei dignitari e dei carnefici sono come più smagriti e sfinati, resi più icastici e ghignanti, aggressivi o patetici, quasi congestionati a voler contrastare il pallore infinito del Cristo.[23] Si ha l’impressione che, nell’ultima fase della vita, Giovanni Battista Trotti rientri in una sorta di canone “farnesiano” che impronta a mio avviso la produzione di buona parte degli artisti attivi alla corte di Ranuccio I: non rinuncia alle proprie caratteristiche peculiari ma viene come avvolto da un’atmosfera particolare, un’aura cortigiana, per cui gran parte della produzione figurativa dei territori ducali tra Cinquecento e Seicento “si assomiglia”. È indubbio che il Malosso delle favole mitologiche del Palazzo del Giardino – per quanto rimaneggiate nella prima metà dell’Ottocento da Giovan Battista Borghesi – o del Giudizio di Mida di Buenos Aires, non sia esattamente lo stesso pittore degli anni precedenti l’arrivo a Parma; così si spiega anche la curiosità per una forma per lui nuova di raffigurazione dell’episodio sacro secondo una spazialità completamente diversa rispetto a quelle sino a quel momento utilizzate.

Malosso copista

Nell’inventario post mortem dei beni mobili del Malosso reso noto da Alberto Cadoppi e Federica Dallasta e redatto a cadavere ancora caldo a poche ore dalla morte, l’11 giugno 1619, nella casa del pittore nella vicinia della Santissima Trinità a Parma, compare tra le varie cose un «quadretto con cornice di pioppa finta di noce, et uno filo d’oro, con l’effiggie di san Steffano cavata dall’originale del Parmigianino».[24] La notizia è di un certo interesse perché indirizza su un aspetto della sua produzione su cui la critica non si è ancora soffermata, ovvero l’attività di copista: una pratica sempre piuttosto in voga, come possono confermare gli inventari di molte botteghe di pittori e come dimostra, per esempio, l’aspetto assai rilevante che assume nella produzione del maestro del Trotti, Bernardino Campi, il quale copia tante volte la serie dei Cesari di Tiziano a Mantova o i ritratti del Museo di Paolo Giovio a Como, o la ritrattistica fiamminga di Anthonis Mor, ed è l’artefice di un episodio piuttosto interessante di recupero di un modello parmigianinesco che credo perduto, quello di una Santa Caterina che corrisponde solo parzialmente alla deliziosa tavoletta del Mazzola a Francoforte (Städelsches Kunstinstitut, inv. 1496; Fig. 13) e che diventa una sorta di multiplo, ripetuto ad libitum nella sua bottega e oltre. Forse quest’ultimo caso merita un piccolo supplemento d’indagine: una teletta incollata su tavola nella Galleria Nazionale di Parma (inv. 363; Fig. 15) ricalca, ma con alcune varianti significative, il Parmigianino di Francoforte, tanto da essere stata attribuita allo stesso Mazzola quando si trova, dal 1710, in casa Sanvitale a Parma, dove è anche incisa da Benigno Bossi (Fig. 14).[25] Da diversi anni ormai è stata più correttamente ricondotta nel catalogo di Bernardino Campi e con questa attribuzione è stata esposta a Tokyo nell’estate 2007, corredata da una bella scheda di Mariangela Giusto.[26] Il fatto curioso è l’esistenza di diverse redazioni antiche del dipinto, prima tra tutte quella di Vienna (Kunsthistorisches Museum, inv. GG 284; Fig. 16) che a un esame attento si rivelano irrimediabilmente copie, eseguite però prima dell’acquaforte settecentesca del Bossi: ciò a significare che il dipinto campesco incontrò una notevolissima e precoce fortuna sotto mentite spoglie e non mi sembra inverosimile, a questo punto, che fosse stato tradotto in incisione anche prima dell’esemplare bossiano.[27]

Fig. 13. Francesco Mazzola detto il Parmigianino, Santa Caterina con due angeli, Francoforte, Städelsches Kunstinstitut (© Milano, Mondadori Portfolio/Akg Images).
Fig. 14. Benigno Bossi (da Bernardino Campi), Santa Caterina con due angeli, collezione privata (archivio Tanzi).

Tornando al Malosso, oltre alla copia perduta – che tra l’altro rientra nell’elenco delle opere confiscate per ordine del duca ma non tra quelle restituite ai familiari – di uno dei santi ai piedi della Vergine nella pala del Parmigianino per Casalmaggiore, ora a Dresda (Gemäldegalerie, inv. 160), occorre ricordare, anche per capire meglio le pratiche della sua bottega: «nella camera detta la scuola da basso […] quindici quadri in tela con i suoi telari d’altezza circa brazza uno, e mezzo, et larghi uno brazzo, sopra de quali, et ciascuno di loro è dipinto uno Imperatore anco fatto come dicono di mano de scolari di detto signor Cavagliero Malossi». Giovanni Battista Trotti faceva dunque esercitare i suoi allievi copiando i Cesari di Tiziano. Ancora sul versante della pittura veneta, esiste in collezione privata un dipinto che testimonia queste sue attitudini: una Testa di carattere (Fig. 17) che riprende l’alabardiere sull’estrema destra nel Convito in casa di Levi di Paolo Veronese per San Zanipolo a Venezia (Gallerie dell’Accademia, inv. 203; Fig. 18).[28] Se poi, prima della vendita del 1869, esisteva nella collezione Sommi Picenardi alle Torri una sua copia ora perduta della Trasfigurazione di Raffaello, registrata nel catalogo del 1827, va segnalato che il cremonese riprende anche – o meglio, in questo caso reinterpreta – con varianti la Madonna della rosa di Girolamo Mazzola Bedoli ora a Monaco (Alte Pinakothek, inv. 5289) in una teletta ora in deposito presso il Museo della Città di Rimini.[29] Nelle Gallerie dell’Accademia Tadini, a Lovere, invece, si conserva una Madonna con il Bambino (inv. P 4; Fig. 20) che Malosso copia dalla zona celeste della Visione di San Girolamo del Parmigianino alla National Gallery di Londra (inv. NG33; Fig. 19).[30] La grande tela, come testimonia una scritta a pennello nel retro, arriva dal convento di Sant’Agostino a Crema, come alcune delle opere più significative della raccolta costituita dal patrizio cremasco, solo in seguito alloggiata sulla sponda bergamasca del Sebino. La vede nel palazzo di Crema il pittore vicentino chiamato a restaurare la Pala Manfron di Paris Bordon, Francesco Boldrini, il quale vanta le proprie doti di conoscitore attribuendola al Parmigianino in persona e intrattenendo il conte Tadini sulle vicende dell’originale, «comprato da un mio amico pittore inglese» a Città di Castello, con il classico tono di quello che fa vedere di saperla lunga allo scopo di ottenere un’altra commessa ben remunerata.[31] Gustavo Frizzoni riproduce la pala londinese nel 1903 a corredo dell’articolo dedicato alla galleria di Lovere, ma si mantiene giustamente sulle sue: «Questa replica si trova appesa nel salone d’ingresso della galleria, ma essendo collocata in alto, sopra una porta, riesce un po’ difficile il decidere se si possa ritenere opera originale, come voleva il Boldrini, o se sia soltanto una buona copia».[32] La cautela del conoscitore bergamasco è del tutto giustificata, la copia dall’ultimo capolavoro romano del Parmigianino in effetti è davvero buona e tradisce gli accurati caratteri esecutivi e la tavolozza lucida e smaltata del Malosso. La fedeltà del copista è puntuale perfino nei dettagli più minuti e ci si chiede quindi se il cremonese l’abbia vista dal vivo o sia stato piuttosto aiutato dalla traduzione incisa della Pala Bufalini, che tuttavia non può essere la stampa di Giulio Bonasone, perché mostra varianti significative proprio nella figura della Vergine. È quindi possibile ipotizzare che il Martirio di Sant’Orsola conservato nel Sacro convento di San Francesco di Assisi non sia stato spedito da Cremona ma che il Trotti stesso l’abbia eseguito in situ, transitando nell’alta Val Tiberina per poter contemplare di passaggio la grande tavola del Parmigianino in Sant’Agostino a Città di Castello.[33] E poi, magari sarà arrivato a Roma. Messa vicina al capolavoro destinato in origine in San Salvatore in Lauro, però, la tela del Malosso perde tutta l’atmosfericità e la trasparenza cristallina dell’aria e i passaggi cromatici delicatissimi della tavola oggi a Londra: nella sua raffinatezza di seconda mano il cremonese satura i colori rendendoli più glassati e meno vibranti, il rosa diventa rosso e lo sfondo traslucido si appiattisce irrimediabilmente.

Concludo, quasi fuori tempo massimo, questo capitoletto con un’ultima scoperta avvenuta per puro caso: cercando tutt’altro, in internet, mi sono imbattuta, nel Château-Musée di Boulogne-sur-mer, in questo strepitoso San Sebastiano attribuito a Maarten de Vos (inv. 6.R13), che, dall’immagine, sembrerebbe richiedere una leggera pulitura (Fig. 23).[34] Si tratta ancora una volta del Malosso che copia, in questa occasione, un notevole modello di Bernardino Gatti detto il Sojaro che conosco piuttosto bene perché ha una vicenda critica, in qualche modo, familiare oltre che una certa fortuna, tra Cinquecento e Seicento, visto che fu replicato e copiato varie volte (Fig. 22).[35] Se già nella tela di Bernardino Gatti il santo era inserito in una bella apertura di paese, questo nuovo dipinto dimostra ancora una volta l’attitudine del Malosso per l’immersione completa dei suoi personaggi nella natura, nel paesaggio “moderno” e magico, alla fiamminga, come già si era rilevato all’inizio di questo lavoro (e un confronto con il piccolo particolare dell’Annunciazione del Duomo riprodotto a Fig. 5 potrebbe bastare per certificare l’identità di mano). Più interessante ancora mettere in sequenza tre immagini iconiche di San Sebastiano (Figg. 21-23) proprio per poter apprezzare l’evoluzione dell’approccio paesaggistico nella pittura d’altare a Cremona in momenti diversi del Cinquecento: quello eseguito da Dosso Dossi per le monache agostiniane della Santissima Annunziata, ora a Brera (Reg. Cron. 365), l’altro del Sojaro e infine questo del Malosso, non dimenticando nemmeno l’esemplare intensamente “romanista” di Antonio Campi, datato 1575, al Castello Sforzesco di Milano (inv. 755). La perspicuità ottica alla Bril di Giovanni Battista Trotti trova uno dei suoi momenti più alti nella tela di Boulogne-sur-mer, con una sapienza chiaroscurale davvero rimarchevole, nei toni più caldi dei raggi dell’ultimo sole che accarezzano delicatamente il tronco scabro dell’albero alle spalle del martire, in contrasto con i gelidi azzurrini del lago e degli edifici che si perdono verso i monti sul fondo, e l’intrico labirintico dei sentieri collinari, tra ponticelli e steccati, radure e gradoni naturali scavati nella roccia, nella zona di destra. Davvero un quadro spettacolare, anche se non era la prima volta che Malosso copiava quel modello di Bernardino Gatti: lo aveva già fatto nel 1595 per la cappella di patronato di don Diego Salazar, gran cancelliere dello Stato di Milano, nella chiesa dei cappuccini di Regona, presso Pizzighettone, da sistemare, insieme a un San Diego – entrambi attualmente di ignota ubicazione – ai lati della bella Adorazione dei pastori ora nelle collezioni della Banca di Piacenza.[36]

Aristide: un malossesco espressionista in Riviera

Tra i soggetti sacri meno frequentati dal Malosso e dalla sua bottega, quello della Crocifissione risulta senza dubbio uno dei più rari: ricordo solo la tela per la cappella Guarna Salerni in San Domenico a Cremona, ora in collezione privata, con il Crocifisso tra i Santi Pietro Martire ed Elena; la pala del Carmine a Pavia del 1593, con il Crocifisso con la Vergine, San Giovanni Evangelista e la Maddalena abbracciata alla croce, con la teletta di Palazzo Spada a Roma che le si ricollega, e la vera e propria scena di Crocifissione, di impianto ancora campesco, del tempietto di Cristo Risorto presso San Luca a Cremona: un ciclo che meriterebbe davvero di essere restaurato e ricollocato in situ, oltre che studiato per bene, per la serie di intriganti questioni che lo riguardano e sembrano ancora in gran parte aperte, perché è un assieme pittorico dal significato davvero più elevato di quanto non sia stato finora affermato, con scelte formali e disposizioni strutturali rimarchevoli per essere sminuito genericamente a lavoro di bottega.[37] Le fonti poi, o meglio, il solo Antonio Maria Panni, nel 1762 ricorda Sant’Alessio «Chiesa dell’Ospitale degl’Incurabili, in cui sopra l’Altar Maggiore si vede meravigliosamente finto un tappeto a similitudine di quello che fece Giulio Campi in S. Margarita, sopra cui evvi dipinto in bello e vago Paese un Cristo molto morbido e ben disegnato in Croce. Opera di Gio. Battista Trotti».[38] La chiesetta e l’ospedale furono soppressi nel 1777 e tramutati «in una casa privata con orto», così il dipinto, verosimilmente murale, è andato perduto, ma il modello citato nel Distinto rapporto è ancora esistente: la lunetta a fresco di Giulio Campi che sovrasta l’arco del presbiterio della chiesa del Vida, con il trompe-l’oeil elegante e massimamente illusivo del finto arazzo fissato al muro con chiodi, sul quale campeggia il Crocifisso in una straordinaria veduta di paese. Sarebbe stata un’altra variante compositiva di questo soggetto così episodico nella produzione del pittore.

Per questo trovare una grande pala (360 x 197,5 cm) con Cristo Crocifisso tra la Vergine e San Giovanni Evangelista (Fig. 24) decisamente malossesca, sebbene di un malossismo del tutto eterodosso, e completamente fuori contesto, a San Lorenzo della Costa – frazione di Santa Margherita Ligure, sul promontorio di Portofino a dominare il Tigullio –, è una sensazione davvero straniante, molto di più di quando si arriva in quella sorta di grande pinacoteca domenicana del Ponente ligure che è il San Domenico di Taggia, nella quale il Malosso esegue per l’inquisitore Pietro Martire Visconti la corrusca Adorazione dei pastori.[39] La parrocchiale di San Lorenzo è una meta frequentata per la presenza dell’imponente Trittico di Sant’Andrea, eseguito da un maestro fiammingo a Bruges, dove era stato commissionato dal nobile Andrea della Costa nel 1499; ma mi sembra che nessuno si sia invece soffermato a osservare con la dovuta attenzione la tela cremonese, donata alla chiesa dalla famiglia Bozano Gandolfi e gratificata da un riferimento tradizionale alla scuola dei Campi. Da tantissimi anni esiste la cartolina stampata dalle storiche Edizioni Marconi di Genova, presso le quali mi sono procurata l’immagine della pala in uno stato di conservazione migliore di quello attuale. Se colpiscono innanzitutto le dimensioni della tela, evidentemente destinata in origine a una collocazione privilegiata che ignoriamo totalmente, per quanto riguarda invece le questioni dello stile la prima cosa che viene in mente è la bottega del Malosso. Immediatamente e senza alcun dubbio: ma quale collaboratore del Trotti spinge così all’eccesso la percezione del sentimento dei personaggi nel momento del dramma sacro? Chi estremizza la teatralità con gesti così esasperati ma al contempo come bloccati in un drammatico fermo immagine? Per un verso o per l’altro tutti vogliono imitare il maestro nelle sue attitudini più soavi e rasserenanti, anche nelle scene di martirio più cruente ed estreme. I figli di Manfredo Lodi, Ermenegildo e Giovan Battista, Giulio Calvi detto il Coronaro, il casalasco Cristoforo Agosta, Giovanni Giacomo Pasini da Soresina, Bartolomeo Bersani, Giovanni Francesco Raimondi, Stefano Lambri, Panfilo Nuvolone, il piacentino Orazio Camia e gli altri, ancora, tendono tutti a seguire la strada intrapresa dal Malosso, addolciscono i volti e gli sguardi fin quasi, a volte, alla melensaggine più stucchevole e stereotipata. Chi invece può voler intraprendere la strada opposta, facendo convergere in una scena di impianto fortemente malossesco dei personaggi con grinte squadrate fortemente espressive, patetiche e dolenti? Chi può semplificare in maniera così precisa la composizione, con la perfetta centralità della croce, la nettezza del contrasto luce-ombra del chiaroscuro, la definizione geometrizzante dei panneggi, la costruzione del fondo nuvoloso come se fosse un muro di rocce sovrapposte, con il cielo arancione in basso che illumina, prima del cataclisma, una Gerusalemme costruita da mattoncini Lego? E si affida a una tavolozza così intensamente “cremonese”, con una sorta di pantone che supera sempre di un grado o due le tonalità adottate di consueto dai pittori locali.

FIG. 24. Aristide Malosso, Cristo Crocifisso tra la Vergine e San Giovanni Evangelista, San Lorenzo della Costa, San Lorenzo (© B.N. Marconi – Genova – www.bnmarconi.it).

Il quesito attributivo sembrava destinato a rimanere irrisolto, se non che una pura casualità mi ha portato a ragionare su un’opera rimasta nella casa del Malosso a Parma al momento della sua morte, uscito da quella sorta di cono d’ombra che fa trascurare la rada produzione di opere sacre eseguite nella capitale ducale: «Un’altra ancona più piccola della Beata Orsolina Parmigiana qual dice il signor Aristide essere delle Madri del Monasterio di San Quintino di Parma, et per la loro chiesa di mano parte di detto signor Cavagliero et parte di detto signor Aristide».[40] Prima di tutto Aristide. Questo carneade è il figlio naturale del Malosso, il quale due giorni prima di morire, in un codicillo testamentario aveva disposto che i suoi eredi – Alcibiade e gli altri figli legittimi – consegnassero ad Aristide, pittore e collaboratore del padre, tutti i disegni reperibili a Parma o altrove, al fine di assicurargli alimenti e sostentamento; facendo inoltre istanza al Duca Ranuccio perché lo facesse legittimare. Il dipinto per le monache di San Quintino, non firmato né datato, si conserva ancora in Vescovado a Parma (tela, 244 x 163,9 cm) ed è stato oggetto di studio in anni recenti: raffigura San Giovanni Evangelista che guida la Beata Orsolina de’ Veneri e la madre alla tomba della Maddalena (Fig. 27).[41] La pala della beata parmigiana è un testo pittorico abbastanza ostico e ingrato, ma l’inventario post mortem dei beni mobili nella casa parmigiana del Malosso ci soccorre anche verso una più chiara definizione stilistica delle ultime due opere del maestro. «Nella sala sopra che guarda verso strada sono: Un’ancona grande qual dicono essere destinata alla chiesa de Capuzzini di Fontevivo con sopra uno miracolo di San Domenico di mano del detto signor Cavagliere. Un’altra ancona più piccola della Beata Orsolina Parmigiana qual dice il signor Aristide essere delle Madri del Monasterio di San Quintino di Parma, et per la loro chiesa di mano parte di detto signor Cavagliero et parte di detto signor Aristide».[42] Si è già visto che «l’ancona grande» è la pala raffigurante San Domenico e il rogo dei libri eretici ora nel Museo degli affreschi “G. B. Cavalcaselle” a Verona (301,4 x 204 cm), tutta «di mano del detto signor Cavagliere [Malosso]» (Fig. 28), mentre quell’altra più piccola (244 x 163,9 cm), ora nel Vescovado, è «di mano parte di detto signor Cavagliero et parte di detto signor Aristide» (Fig. 27). La tela veronese è un pregevole e riconoscibile capo d’opera estremo nel catalogo di Giovan Battista Trotti, con tutti i crismi dell’autografia e accompagnato da un disegno preparatorio, a Berlino (Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, inv. KdZ 17811), che rientra tra le sue migliori prove grafiche (Fig. 26); mentre quello parmense è un dipinto a tutti gli effetti di minore pregio formale, dichiaratamente di collaborazione – nel quale si percepisce molto bene anche quanto debba essere stato esteso e preminente il grado di partecipazione di Aristide – dove le caratteristiche tipiche della maniera malossesca risultano come offuscate e quasi mimetizzate da un andamento corsivo e non certo sgargiante.[43] Si riscatta leggermente il disegno preparatorio, individuato sul mercato antiquario parigino (Fig. 25) , che, sebbene non rientri tra i fogli più entusiasmanti del prolifico disegnatore, può offrire il destro per qualche riflessione sulla sua grafica estrema, forse più libera e spigliata rispetto ai moduli obbligati in cui è stata costretta per decenni e con una maggiore propensione a inserire le figure in un ambiente aperto e arioso, con valli e fronde, senza limitarsi allo studio pedissequo dei personaggi. Penso che potrebbe risultare istruttivo dal punto di vista didattico mettere in sequenza fotografica i due dipinti trovati in casa del Malosso alla sua morte con i loro disegni preparatori, anche per poter capire meglio le dinamiche di una bottega sotto vari aspetti: dal diverso grado qualitativo dovuto al differente rilievo della committenza alle pratiche esecutive, dai problemi non del tutto ovvi o di agevole risoluzione di iconografia a quelli più spiccioli relativi all’autografia, eccetera.

Se il progetto grafico della pala della Beata Orsolina, dunque, spetta al Malosso, la realizzazione pittorica tradisce abbondantemente la partecipazione del figlio Aristide, che è da considerare davvero magna pars – se non maxima – nell’esecuzione e nella messa in opera. Se il modo di panneggiare rimane più o meno quello tipico del maestro, la gamma cromatica è solo in parte ricca e smagliante, secondo i vari gradi di quella tavolozza così peculiare che qualifica la produzione del maestro: qui i toni sono come abbassati e uniformi ed emergono solo qua e là delle unghiate di classe come il rosso lacca del mantello dell’Evangelista. Ciò che cambia in maniera più significativa, proprio perché il Malosso ci aveva abituato a un repertorio tipologico estremamente omogeneo – sempre lo stesso – sono i volti dei protagonisti, nei quali è veramente difficile riscontrare tratti comuni alla maggior parte dei suoi personaggi. I tre volti sono strani e pochissimo malosseschi, edulcorati e generici quelli di San Giovanni e della Beata Orsolina, caratterizzato in maniera più patetica e definita, invece, come intagliato nel legno, quello della madre sull’estrema destra. Ed è assolutamente uguale a quelli del San Giovanni e della Vergine nella grande pala di San Lorenzo della Costa: la chiave per entrare in un problema attributivo che sembrava insolubile. Quel volto nel quadro parmense non è di Giovan Battista Trotti ma di Aristide Malosso (mi piace chiamarlo così, perché le carte non ci dicono se poi è stato legittimato o meno da Ranuccio Farnese) e mostra caratteristiche stilistiche specifiche ed estremamente personali, le stesse che improntano la tela ligure e che non riconosco, almeno per ora, in altri dipinti.

E poi, sarà stata una commissione autonoma, ottenuta da Aristide, o un altro lascito paterno, questa volta, sfortunatamente, non documentato? E dove poteva essere collocata in origine una pala di queste misure e con questa forte valenza icastica del dramma raffigurato? Perché il Crocifisso tra la Vergine e San Giovanni Evangelista ora nella parrocchiale di San Lorenzo della Costa non si può certo dire un capolavoro ma è un quadro decisamente spettacolare, da immaginare in una non meno appariscente carpenteria lignea barocca, policroma e dorata, di dimensioni senza dubbio ragguardevoli. Occorre dunque immaginare un’ubicazione di un certo prestigio in un ambiente dalle proporzioni adeguate – in Emilia? in Liguria? a Cremona? – e, soprattutto, una carriera tutta da ricostruire per il figlio naturale, e forse per questo più amato, del Malosso.

Un (falso) problema malossesco in San Domenico a Cremona

Adam Ferrari, nella sua utilissima monografia sul convento di San Domenico a Cremona, ha fatto luce e messo ordine di recente sul rinnovamento della chiesa tra il 1590 e il 1619, sottolineando in maniera decisa l’egemonia del Malosso, grazie al riesame accurato di opere e documenti.

Dotato di uno spiccato senso imprenditoriale e autore di numerosi disegni preparatori ad uso dei collaboratori, l’artista dipinse per il tempio domenicano ben sette pale d’altare tra il 1590 e il 1600, decennio che lo vide impegnato in altri prestigiosi cantieri cittadini. Cinque sono state rintracciate, mentre mancano all’appello quella eseguita per l’altare della Maddalena, venduta già nel Seicento, e quella per l’altare di San Tommaso dei Sommi, presente all’interno della chiesa almeno sino al 1706 (verosimilmente entrambe perdute). Trotti eseguì anche una tela per la parete di fondo della libreria del convento, erroneamente ritenuta dalla critica la pala d’altare del vano dedicato all’aquinate, per via di uno scambio avvenuto nel corso degli anni settanta del Seicento. Inoltre, fu il responsabile sia dell’ideazione del primitivo programma decorativo della cappella del Rosario, sia della progettazione del sacello intitolato al Santissimo Nome di Dio. Le altre pale per San Domenico, ad eccezione di quella per l’altare di Sant’Agnese, allogata al nipote del Sojaro, Gervasio Gatti (1549-1631), furono eseguite da artisti formatisi nella sua bottega, ove operarono anche come suoi collaboratori: Giulio Calvi detto il Coronano esegui l’ancona per l’altare di San Guglielmo; il dotatissimo e rimpianto Cristoforo Agosta quella per la cappella di Santa Caterina da Siena; Andrea Mainardi detto il Chiaveghino licenziò le immagini dei due beati fondatori della comunità cremonese, Rolando e Moneta, e il dipinto per l’altare di Elena Valvassori dell’Argenta. [44]

Questo prestigioso impegno per il tempio dei predicatori, insieme all’aspetto di veri e propri subappalti lasciati ai più affidabili collaboratori per quanto riguarda le altre pale, da’ il polso del monopolio esercitato dal pittore nelle committenze cittadine dell’ultimo decennio del secolo. Come rilevato, le opere domenicane sono fortunatamente pervenute sino a noi in percentuale altissima: le assenze sono solo due, ma Ferrari ipotizza, a mio avviso correttamente, che almeno l’aspetto della pala sull’altare della famiglia Sommi, con San Tommaso in ginocchio davanti al Crocifisso, possa riflettersi nella tela firmata nel 1605 da uno degli allievi del Trotti, Bartolomeo Bersani, per San Giacomo a Soncino.

Non abbiamo invece alcuna certezza sul dipinto che ornava l’altare della prima cappella alla destra dell’altare maggiore, di patronato della famiglia soncinate dei Covo (o Covi), che raffigurava l’Estasi della Maddalena, ma le testimonianze antiche prese in esame dallo studioso sono comunque importanti per tentare di aggiungere qualche tessera a un mosaico per molti aspetti difficile da ricomporre.

L’ultima capella perché finisce il nostro circolo, et ci ricongionge con la capella maggiore da cui cominciammo è quella di S. Maria Madalena, che hora si chiama di S. Domenico di Soriano questa anch’ella è antichissima et dil 1444 era già fatta, et fu concessa al conte Francisco da Covo. Eravi già un’ancona in cui era dipinta S. M. Madalena in atto d’esser rapita nell’aria dipinta per mano del Cavaglier Malosso, che era assai bella. Ma alcuni che riguardavano più a far gli ornamenti et i casamenti dell’ancona grandi e simili a gl’altri, et a far videro una bella prospetiva di legno indorato, che a rapresentar alle menti de più intendenti l’artificio degl’eccellenti maestri di pitura, fra quali è stato il Malosso; perchè quell’ancona era picola alla proportione dell’altre la levarono, e in iscambio vi posero un’ancona nova fatta da un pittore che poco s’intende di lavorar d’innovatione come che per altro sia eccellente copista, ma essendo poi in questa città la divotione di S. Domenico di Soriano, Giacinto Angusciola nostro molto benemerito per sua divotione fece far l’ancona moderna dal medesimo pittore, che è assai migliore anche della prima la qual ristò nelle mani dell’Angusciola. La prima spesa fu fatta da fra’ Ludovico Speciale, et nell’ancona furono spesi libbre 231, nel casamento di legno libbre 524, nell’indorarlo libbre 1050, nella firrata libbre 642, et in altre cose di minor conto libbre 262, che in tutto sono libbre 2709. Questo fu dell’anno 1626 ma il cambio fatto nell’ancona di S. Domenico in cui poi si rapresenta la Vergine accompagnata da S. Maria Madalena, et da S. Catarina Martire che presenta la tela di S. Domenico fu fatto l’anno 1636 – La Madalena poi del Malosso fu venduta da un sacristano per poco, perchè non s’intendeva di pitura, ma ben fu poi tinuta in prezzo dal Gallo, che la comprò.[45]

Dal racconto seicentesco del priore, Pietro Maria Passerini da Sestola, seguiamo bene le vicende dell’altare, ma non siamo in possesso di alcun documento d’allogazione e nemmeno di un solo disegno, nella pur sterminata produzione grafica del Malosso, che riesca a suggerirci un’idea sull’aspetto del dipinto, sulla sua composizione. Sono tutte, evidentemente, testimonianze orali raccolte dal priore a pochi anni di distanza dagli eventi – fu alla guida del convento dal 1640 al 1642 – e conosciamo, perché recuperato nelle soffitte della pinacoteca cremonese nel 1994 dopo essere stato dato per disperso per anni, il non esaltante telone che Stefano Lambri nel 1636 eseguì per l’altare, con l’Apparizione del San Domenico di Soriano (inv. 1643; Fig. 29).[46]

FIG. 29. Stefano Lambri, Apparizione del San Domenico di Soriano, Cremona, Pinacoteca del Museo Civico “Ala Ponzone” (© Cremona, Archivio Fotografico Museo Civico “Ala Ponzone”).

Una serie di coincidenze e di suggestioni di varia natura mi portano invece a riflettere su una pala di qualità ragguardevole quanto di dimensioni contenute rispetto alle misure imponenti dei dipinti mobili di questa campagna orchestrata dal Trotti, eseguita proprio da un allievo del Malosso, Panfilo Nuvolone, il cremonese attivo a Milano nella prima metà del XVII secolo, iniziatore della fortunata stirpe che vedrà nei figli Carlo Francesco e Giuseppe due tra i pittori più importanti e prolifici del Barocco lombardo. A questo punto presento il dipinto, conscia che le probabilità che esso possa corrispondere alla pala dei predicatori cremonesi sono veramente scarse; cionondimeno non mi riesce così facile immaginare quale potrebbe essere l’iconografia elaborata dal Malosso per l’immagine della Maddalena rapita in cielo dagli angeli, a date in cui la vera e propria esplosione del culto e di un’iconografia molto specifica, in Lombardia, devono ancora venire. Non riesco a ricordare, nel lungo corso del manierismo lombardo, immagini particolari della santa in estasi: bisogna tornare ad anni più arretrati e a quei languori voyeuristici delle Maddalene del Giampietrino; o, ancora più indietro, alle nudità più giocose e per niente erotiche (solo Hermann Göring poteva provare fremiti di un certo tipo davanti a un quadro così spiritoso), in mezzo a grappoli di angioletti, di quella di Marco d’Oggiono a Brera (Reg. Cron. 7270). O, naturalmente, la variante gaudenziana, sulla scorta dell’affresco di Gaudenzio Ferrari in San Cristoforo a Vercelli, in parte scassato dal bombardamento francese del 1704, e delle sue riprese da parte di Giuseppe Giovenone il Giovane nel cartone dell’Albertina (inv. 315) e nella tavola di Moncrivello.[47]

Nel decennio che corre all’incirca tra il 1615 e il 1625, nella Milano di Federico Borromeo, prende invece piede una tipologia di pala d’altare raffigurante l’immagine della Maddalena “molto” nuda, solo in parte velata dai lunghi capelli, trasportata in cielo da una gloria d’angeli, in una sorta di pratica giornaliera ricordata nella Legenda aurea.[48] Una rappresentazione “tra peccato e redenzione” che supera, nella sua intensa carnalità, l’iconografia degli anni precedenti, quando la santa appariva almeno in parte rivestita di veli o panneggi, come a Moncrivello. L’esemplare più significativo del rinnovamento, in questo senso, è la tela eseguita dal Morazzone, appartenuta al cardinale e inquisitore Desiderio Scaglia, ora nella Fondazione Cavallini Sgarbi (Fig. 32), che sostituisce il modello realizzato dallo stesso pittore per San Vittore a Varese (Fig. 33).[49] Impaginata invece secondo una diversa tipologia, ma di sensualità non meno accesa, la tela con l’Estasi della Maddalena eseguita da Giulio Cesare Procaccini per Giovan Carlo Doria, ora a Washington (National Gallery of Art, inv. 2002.12.1; Fig. 34).[50]

A questa precisa temperie, venata da accesi languori e da una forte carica erotica, appartiene anche questa Santa Maria Maddalena portata in cielo dagli angeli di Panfilo Nuvolone in collezione privata (tela, 209 x 147,3 cm; Fig. 30).[51] Più celebrato per le nature morte e la ritrattistica, in pratica quasi tutta perduta, oltre che per le imprese decorative commissionate dai governatori spagnoli di Milano per gli ambienti del Palazzo Ducale, anche queste perdute, Panfilo ha una cospicua produzione di dipinti di soggetto religioso – tele e affreschi – che ne segnalano il ruolo di primo piano nelle gerarchie pittoriche della capitale in quegli anni. Basterebbe ricordare la cappella Sansoni in Sant’Angelo, tra 1610 e 1617, o la decorazione dell’abside di Santa Maria della Passione, culminante nell’Incoronazione della Vergine nel catino. Le affinità stilistiche con Camillo Procaccini risultano particolarmente intense: è di un certo interesse rimarcare che, nel contratto del 1610 per la cappella in Sansoni si stabilisce che tra i periti non doveva esserci alcun membro della famiglia Procaccini, in quanto «esso Panfilo gli sarà per sospetto».[52] Si ha così una conferma, sul fronte delle relazioni biografiche, del ruolo giocato negli sviluppi stilistici del cremonese dai modelli del Procaccini, il cui eloquio sciolto e misurato diviene un vero e proprio riferimento normativo per Nuvolone, sovrapponendosi a quello del Malosso.

La Maddalena è in parte segnata dalle stigmate procaccinesche, che rimangono tuttavia in superficie perché la resa formale risulta più ariosa e aggraziata, con trasparenze e raffinatezze pittoriche che accrescono il senso delicatamente atmosferico della composizione. Si ha l’impressione di una collocazione cronologica tra il lunettone con l’Annuncio del transito alla Vergine commissionata a Panfilo nel 1614 per la cappella del Rosario di San Domenico a Cremona e ora in pinacoteca (inv. 228) e l’Incoronazione della Vergine per l’altare maggiore della Kapuzinerkirche di Schwyz, nella Svizzera centrale, firmata e datata 1620. Siamo più o meno in corrispondenza con l’impresa di Santa Maria della Passione a Milano, con la quale condivide non poche sigle stilistiche. La caratteristica principale della tela è da cogliere proprio nell’atmosfera limpida, quasi cristallina dell’aria tersa in cui viene immaginata l’elevazione al cielo della santa peccatrice. Occorre infine ricordare un foglio conservato presso la Biblioteca Ambrosiana a Milano (inv. F 234 inf. n. 963), solamente “attribuito” al Nuvolone, è sicuramente autografo e preparatorio per la figura centrale del dipinto (Fig. 31).[53]

Tornando all’inizio di quest’ultima stanza, non credo certo di avere risolto il problema dell’ancona più “picola” delle altre eseguite dal Malosso e allievi nel rinnovamento degli altari di San Domenico. Come si è detto, non ci sono documenti che garantiscano che Giovan Battista Trotti avesse eseguito la pala della cappella Covo: è solo Pietro Maria Passerini ad affermare che «Eravi già un’ancona in cui era dipinta S. M. Madalena in atto d’esser rapita nell’aria dipinta per mano del Cavaglier Malosso, che era assai bella», ma la sua testimonianza è degli anni in cui il modenese era priore del convento, 1640-1642, ed è quindi più che probabile che non fosse presente né alla sostituzione del 1626, pagata da frate Ludovico, lo speziale del convento, né a quella del 1636, auspice Giacinto Anguissola. Nel referto un poco arruffato del Passerini sembra di capire che la prima Estasi della Maddalena, riferita al Malosso, fu copiata solo più in grande nel 1626 «da un pittore che poco s’intende di lavorar d’innovatione come che per altro sia eccellente copista», ovvero Stefano Lambri: lo stesso a cui fu affidata dieci anni più tardi «la Vergine accompagnata da S. Maria Madalena, et da S. Catarina Martire che presenta la tela di S. Domenico», ora in pinacoteca.

Non c’è alcuna certezza, anzi le date sembrano impedire l’ipotesi che sull’altare della cappella domenicana ci fosse proprio la tela del Nuvolone che ho appena presentato: il pittore è allievo del Malosso e per un certo tempo si avvale dei disegni del maestro (come per la pala del 1609 nella parrocchiale di San Secondo Parmense con le Sante Cecilia, Eufemia, Maddalena e Caterina); la nostra è una tela di dimensioni assai più contenute rispetto a quelle degli altri altari, quasi tutte sui tre metri–tre metri e mezzo di altezza e raffigura una santa pochissimo vestita.[54] Passerini era un protetto di Pietro Campori, garfagnino ma modenese, almeno d’adozione, come lui, vescovo di Cremona dal 1621 alla morte, avvenuta nel 1643, e particolarmente attento, nelle visite pastorali, al decoro delle immagini, come dimostra il caso del Battesimo di Sant’Agostino di Giulio Cesare Procaccini nella chiesa delle agostiniane di Santa Monica, dove l’«imago divi Augustini cum nimis nuda appareat [sottolineato nel testo] ad pietatem, et religionem non videtur apta».[55] In San Domenico le questioni di decenza avevano toccato la pala del Chiaveghino ora in pinacoteca (inv. 216), che aveva subito una manomissione quando, secondo il racconto del Passerini, un converso semplice

parendole che l’imagine di S. Lucia fosse troppo vistosa, la fece scassare, et egli ne fece dipingere un’altra da un pittore di boccali, et la guastò circa l’anno 1624.

C’è poi il caso di Giovan Battista Tortiroli, che nel 1636 deve dipingere una seconda versione della Strage degli Innocenti perché:

la principal figura era un’homo quasi nudo, coperto solo una poca copertura sucinta, et era raprisentato in ischena, si giudicò, che stesse poco bene sopra un’altare, et il medesimo pitore per lo stesso prezzo fece la 2° ancona, in cui l’inventione è più bella, et artificiosa, et meglio tirata et l’altra ad ogni modo si vende il medesimo denaro.[56]

Mi sono forse arrampicata un poco sugli specchi per poter collegare la Maddalena portata in cielo dagli angeli di Panfilo alle vicende del tempio dei predicatori cremonesi; le ipotesi si rivelano leggerine, in assenza di dati più garantiti. Ciò tuttavia non impedisce di poter affermare che essa rappresenta una delle opere di soggetto religioso più significative del Nuvolone senior, per il grado qualitativo particolarmente sostenuto e l’ispirazione iconografica che la colloca in un segmento temporale ben preciso della cultura figurativa milanese prima della grande peste manzoniana del 1630.


Grazie a Roberta Aglio, Marco Albertario, Chiara Allegri, Giuseppe Cirillo, Paolo Coen, Alberto Crispo, Jon Culverhouse, Federica Dallasta, Andrea Daninos, Teodoro De Giorgio, Pietro Di Natale, Davide Dossi, Adam Ferrari, Anna Chiara Fontana, Sara Fontana, Sabrina Giorgi, Ilse Jung, Nikoletta Koruhely, Giulia Maini, Giulio Manieri Elia, Luisa Marchetti, Susanna Pighi, Raffaella Poltronieri, Maria Cristina Quagliotti, Mauro Ranzani, Dóra Sallay, Elisabetta Sambo, Vittorio Sgarbi, Andrea Spiriti, Letizia Treves, Marina Volonté.

[1] Tavola, 54 × 46 cm; Budapest, Szépművészeti Múzeum, inv. 995.

[2] Cirillo 2006, pp. 17-18; non mi consola il fatto di non essere stata l’unica a essersi fatta scappare il saggio citato.

[3] Fadda 2004, figg. 35, 36; rispettivamente p. 162, n. 4 (Budapest); p. 175, n. 33 (Burghley House)

[4] Per l’inventario del 1820 si veda Simon 1915, p. 227, n. 744; Catalogue 1844, p. 41, n. 15; O. Mündler, Schätzungsliste von über die Bestände der Esterházy-Galerie, manoscritto, 1869, Budapest, Szépművészeti Múzeum, Archivio; pubblicato da János Peregriny 1909-1915, I, p. 25, n. 24.

[5] Pigler 1967, I, p. 453, n. 995; Tátrai 1991, p. 1.

[6] Poltronieri 2019. Salvo casi specifici, per comodità, rimando a questo volume per le opere del Malosso citate nel testo: sarà poi cura del lettore esaminare la bibliografia precedente per valutare le singole responsabilità nelle diverse vicende critiche.

[7] Tanzi 2015, pp. 33-34.

[8] Su questo rione malfamato, «speloncha et refugio de cativi», si veda Dossena 1966, pp. 9-10.

[9] Poltronieri 2019, pp. 215, 217-218, nn. 47, 51.

[10] Ibidem, pp. 191, 199, 206, 209-210, nn. 4, 19, 32, 37.

[11] Ibidem, pp. 211-212, n. 40. Per vari motivi non credo che quella già in casa Cavalcabò possa essere la pala descritta nella visita pastorale del Vescovo Cesare Speciano nel settembre 1600 sull’altare del Rosario di San Siro a Soresina perché il santo vescovo sulla destra indossa il saio francescano sotto il piviale e non dovrebbe essere Siro; forse si tratta di San Bonaventura, ma in questo caso mancherebbe il galero cardinalizio. La perduta «iconam pulcherrimam» soresinese, poi, secondo il referto della visita, effigiava altri santi oltre a Domenico e Siro. Non ultima obiezione, mi sembra che per le sue dimensioni la tela si possa definire agevolmente una “paletta”, un po’ troppo piccola per soddisfare le aspettative di una committenza di rilievo come quella della confraternita del Rosario del borgo sulla via di Crema. Non credo nemmeno che possa essere Sant’Imerio, come vorrebbe invece Bocchi 2017, pp. 180-182, fig. 8, proprio perché nella già citata pala Cambiaghi della Pinacoteca di Cremona (inv. 116, Madonna con il Bambino in gloria, angeli e i Santi Domenico, Imerio e Giovanni Battista) Imerio indossa, sotto il piviale, un camice bianco.

[12] Fadda 2004, p. 175, n. 33, fig. 36.

[13] H. Brigstocke, in Italian paintings 1995, pp. 42-43, n. 1. Sulla precocità del dipinto nella produzione dell’Anselmi si vedano Cirillo 2006, p. 31; Idem 2016, pp. 116, 121; D. Ekserdjian, in Correggio 2016, p. 223, n. 80, non conosce la provenienza Muselli della teletta, di cui alle note seguenti.

[14] Dossi 2014, pp. 194, 197, nota 76; si veda anche Coen 2018, pp. 172-173.

[15] Dossi 2014, pp. 194, 197, nota 76; si veda anche, per ulteriori particolari sulla vendita Muselli e sui diversi protagonisti, Dossi 2013, pp. 49-66, con bibliografia precedente.

[16] Catalogue 1767 p. 6, n. 10.

[17] Per questa figura di mercante rimando a Michel 2007, pp. 64-65.

[18] Tanzi 2015, pp. 33-34.

[19] Ronchini 1881, pp. 141-156; Cirillo, Godi 1985, pp. 63-77 (sarebbe lunghissimo elencare tutti gli interventi di Giuseppe Cirillo, con o senza Giovanni Godi, per cui rimando al contributo in qualche modo fondante la lunga fedeltà a questi temi, menzionando poi, di volta in volta, quelli più recenti); Cadoppi, Dallasta 2012, pp. 87-108.

[20] Tela, 97 x 123 cm; Parma, Pinacoteca Stuard, inv. 92: Cirillo, Godi 1987, pp. 73-74, n. 44; Cirillo 2003, p. 52.

[21] Sul pittore bolognese, i suoi dipinti e il regesto dei documenti farnesiani rimando a Leonello Spada 2002, passim; sul teatro: Fornari 1993, pp. 92-101.

[22] Poltronieri 2019, pp. 210, 212-213, 226-228, nn. 38, 42, 67, 68.

[23] Negli inventari farnesiani, è registrato un numero ingente di ritratti malosseschi: non vorrei che fosse soltanto una suggestione, ma il bell’esemplare raffigurato nella pagina a fronte del Cristo mostrato al popolo nel catalogo della raccolta parmense, oltre a essere indubbiamente della stessa mano del dipinto appena esaminato: tela, 79 x 63 cm; Parma, Pinacoteca Stuard, inv. 27: Cirillo, Godi 1987, pp. 74-75, n. 45, ancora come Soens: e in effetti qualche analogia si può cogliere con il Ritratto di Pomponio Torelli del Trotti, in deposito da Capodimonte (inv. Q 1930, n. 928) in Palazzo Reale a Caserta. Credevo che potesse essere riferito al Malosso un Ritratto di Francesco Torelli, conte di Montechiarugolo morto nel 1518, transitato da un’asta a Bruxelles (Vanderkindere Auctioneer, 10 marzo 2015, lotto 190) come “Ecole émilienne. Deuxième moitié du XVIème”; lo consideravo infatti una sorta di ritratto celebrativo del condottiero parmense eseguito a fine secolo nello stile di primo Cinquecento con una forte connotazione raffaellesca. L’opera veniva pubblicata da Alberto Crispo 2015, pp. 11-30, con una proposta attributiva in favore della “famiglia Mazzola”, tra il 1516 e il 1518, ovvero che potesse spettare a Pier Ilario e al nipote Parmigianino, con la possibile presenza dell’altro zio, Michele. Sul retro della tela, passata in collezione privata, è tuttavia emersa un’iscrizione «cæsar aretusi bonis / f», che non sembrerebbe autografa ma che è evidentemente copiata dall’orginale, che, se da una parte conferma l’impressione che si tratti di un’opera del tardo XVI secolo, induce a vari ripensamenti sulla ritrattistica del bolognese Aretusi proprio in rapporto con quella del quasi coetaneo Trotti.

[24] ASPr, Congiure e confische, b. 53; Cadoppi, Dallasta 2012, pp. 87-108.

[25] L. Viola, in Galleria Nazionale 1998, pp. 243-244, n. 416; l’attribuzione a Bernardino Campi si deve a Tanzi 2004, p. 158, nota 57. Per l’acquaforte di Benigno Bossi si veda D. Dagli Alberi, in Parmigianino tradotto 2003, p. 86, n. 112.

[26] M. Giusto, in Parma 2007, p. 59, n. II-09, con bibliografia precedente. Prima di entrare in casa Sanvitale, nell’inventario della collezione Boscoli, a Parma, redatto il 18 dicembre 1690, il dipinto era già considerato copia da Parmigianino (Campori 1870, p. 378). Spetta ad Ireneo Affò 1784, p. 81 – uno degli uomini più brutti del mondo stando almeno al ritratto marmoreo in Santa Maria degli Angeli a Busseto – l’erronea conferma dell’opera alla mano del Parmigianino; il francescano di Busseto ricorda anche la testimonianza a Benigno Bossi del pittore inglese William Peters, secondo il quale una replica della Santa Caterina «conservasi nella Galleria del Re d’Inghilterra». Non mi è tuttavia riuscito di ritrovare il dipinto nelle collezioni della corona britannica.

[27] Metto in fila una serie di redazioni della Santa Caterina, iniziando appunto da quella di Vienna citata nel testo: Tanzi 2018, p. 78, nota 43, la riteneva autografa ma mi ha comunicato di non essere pienamente convinto per la stesura leggermente più debole e sorda rispetto al quadretto già Sanvitale. Una versione piuttosto debole è passata da un’asta fiorentina di Pandolfini il 23 aprile 2013, lot. 428 come “Seguace del Parmigianino, sec. XVII”; di un’altra, debole e di ubicazione sconosciuta, si conserva un’immagine in bianco e nero nella Fototeca della Fondazione Federico Zeri presso l’Università di Bologna, scheda 31252; dietro alla fotografia di un’altra versione (scheda 31251) è riportata l’annotazione: «Attraverso la foto è difficile valutare se si tratta della copia da Parmigianino conservata presso la Galleria Nazionale di Parma». Nel Museo Berenziano presso il Seminario Vescovile si conservano sia la stampa di Benigno Bossi che un’ennesima copia del dipinto, di cui non saprei fornire la datazione perché la raccolta è attualmente chiusa. Ringrazio di cuore Roberta Aglio per tutte le preziose segnalazioni.

[28] Tanzi 2015, p. 38, fig. 7; per l’identificazione con l’alabardiere nella grande Cena del Veronese ringrazio Andrea Daninos.

[29] Per la copia della Trasfigurazione di Raffaello si veda Sommi Picenardi 1909, p.154, n. 152; la Madonna della rosa ora a Rimini è stata attribuita al Malosso da Mazza 2002, p. 174, fig. 42.

[30] Tela, 206 x 146 cm; Lovere, Galleria dell’Accademia Tadini, inv. 4: Tadini 1828, p. 8 n. 4; Frizzoni 1903, pp. 353-354; Scalzi 1992, II, p. 56, n. 4; Albertario 2020, pp. 28-29, nota 3.

[31] Frizzoni 1903, pp. 353-354.

[32] Ibidem.

[33] Poltronieri 2019, p. 212, n. 41.

[34] Ho solamente le immagini comprensive della cornice: 174 x 122 cm.

[35] È stato pubblicato da Tanzi 1991b, pp. 39-41, fig. 9, con la corretta attribuzione al Sojaro, quando si trovava presso un antiquario parigino; poi è passato da un’asta Finarte a Milano il 29 novembre 1990, lot. 138; quindi in una storica collezione milanese: ignoro l’attuale proprietà. In anni più recenti se ne sono occupati Cibolini 2013-2014, pp. 55-57, fig. 1; Ferrari 2019, p. 43, fig. 1.20, anticipando la datazione al terzo decennio del Cinquecento. La Cibolini ha ricordato una replica parziale già in collezione privata cremonese e un’altra che nell’Ottocento era nella collezione del conte Carlo Castelbarco a Milano, di dimensioni quasi analoghe ma non coincidenti con quella passata da Finarte. Una copia antica, con il martire in un interno spoglio, legato a una colonna anziché all’albero, era sul mercato antiquario parigino; se ne conserva l’immagine nella Fototeca della Fondazione Zeri a Bologna, scheda n. 31762.

[36] Marubbi 2003, p. 29, fig. 9; Poltronieri 2019, pp. 210-211, n. 39.

[37] Ibidem, pp. 195-196, 204-205, 238-240, nn. 13, 29, 30, 18b (fig. 87).

[38] Panni 1762, p. 153.

[39] Tanzi 2015, p. 33, nota 1, rilevava: «Una grande pala sempre con la Crocifissione, di ambiente malossesco, ma come di un Malosso irrigidito, ipermetallizzato ed espressionista, è da studiare nella parrocchiale di San Lorenzo della Costa, frazione di Santa Margherita Ligure». Per la pala taggiasca, inquadrata in una bella carpenteria lignea, si veda Poltronieri 2019, pp. 203-204, n. 27.

[40] Cadoppi, Dallasta 2012, p. 98.

[41] Cadoppi, Dallasta 2012, p. 90, fig. 1; Fontana 2016, pp. 21-34.

[42] Cadoppi, Dallasta 2012, p. 98; non si sposta quindi troppo dal vero Cirillo 2003, p. 54, quando afferma che «l’esecuzione assai modesta fa pensare che si tratti del prodotto di un debole scolaro lavorante su disegno del maestro».

[43] Per la pala di Verona con il disegno preparatorio a Berlino rimando ancora a Poltronieri 2019, pp. 227-228, n. 68; Fontana 2019, pp. 144-149; mentre per quella del Vescovado di Parma con il disegno sul mercato parigino a Fontana 2016, pp. 21-34.

[44] Ferrari 2019, passim; in particolare pp. 49-74; la citazione è da p. 51.

[45] La descrizione del 1641-1642 a opera di Pietro Maria Passerini da Sestola è trascritta in Ferrari 2019, p. 90.

[46] Si veda la scheda di L. Carubelli, in La Pinacoteca 2007, pp. 123-126, n. 110

[47] P. Astrua, in Gaudenzio 1982, pp. 202-205, n. 33. La Maddalena di Moncrivello è stata recentemente scambiata per un affresco (G. Renzi, in Il Rinascimento 2018, p. 378) ma, per chi l’ha vista, rimane sempre una bella tavolona (238 x 153 cm).

[48] Iacopo da Varazze 1995, p. 512: «Ogni giorno, alle sette ore canoniche era elevata al cielo dagli angeli, ove udiva il canto armonioso delle schiere celesti anche con le orecchie corporali: così ogni giorno si saziava di questi cibi deliziosi e poi, riportata dagli angeli nel suo luogo terreno non sentiva più alcun bisogno di alimenti materiali».

[49] Per la prima opera si veda la scheda di P. Di Natale, in La Collezione 2018, pp. 180-181, n. 59, con bibliografia precedente (una copia, a lungo considerata un autografo, è conservata a Brera, Reg. Cron. 5606: si veda S. Coppa, in Pinacoteca di Brera 1989, pp. 306-308, n. 217); per la seconda Stoppa 2003, pp. 212-214, n. 36, tav. 32. Va ricordato anche l’esemplare del Jack. S. Blanton Museum of Art di Austin (The Suida Manning Collection, inv. 170.1999), riferito inizialmente a Gian Giacomo Barbelli, poi passato a Giovanni Maria Arduino, quindi, dubitativamente, a Riccardo Taurino: Marubbi 2008, p. 48, fig. 15.

[50] Per il dipinto di Washington si veda la scheda di O. D’Albo, in L’ultimo Caravaggio 2017, pp. 166-167, n. 26; senza dimenticare, dello stesso pittore, la straordinaria redazione in collezione privata con l’Elevazione della Maddalena, in cui il rapporto tra figura e paesaggio è tra i più suggestivi dell’intero panorama pittorico milanese di primo Seicento: M. Tanzi, in La Maddalena 2016, pp. 76-77, n. 18.

[51] Ferro 2003; per Panfilo si veda soprattutto Frangi 2013, pp. 27-31; al quale si rimanda per la bibliografia sulle vicende e le imprese qui menzionate.

[52] Berra 2002, p. 74.

[53] Milano, Biblioteca Ambrosiana, inv. F 234 inf. n. 963; 240 x 150 mm, matita nera su carta grigia.

[54] Per la pala di Panfilo Nuvolone a San Secondo e i suoi disegni preparatori volarono un po’ gli stracci, come pare fosse consuetudine, alla fine del secolo scorso tra Tanzi 1991a, p. 70, figg. 17, 19-20; Idem 1993, pp. 208, 216, nota 9, che assegnava al Nuvolone sia il disegno del Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona (inv. 645) che quello del Metropolitan Museum di New York (inv. 87.12.100); e Cirillo, Godi 1991, p. XLV, nota 8 – che davano il primo al Malosso e il secondo a Ermenegildo Lodi. Forse la verità sta nel mezzo, perché il foglio portoghese sembra davvero appartenere al Malosso, mentre quello del Metropolitan potrebbe spettare al Nuvolone, anche perché gli studi di figura sul verso non hanno niente di malossesco. Un terzo disegno, che dovrebbe essere ancora inedito, si trova a Kassel (Museumslandschaft Hessen Kassel, Graphische Sammlung, inv. GS 17119) con l’attribuzione a Panfilo Nuvolone.

[55] Tanzi 2015, p. 164.

[56] Le citazione dal Passerini sono in Ferrari 2019, pp. 69 nota 86, 95.

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Scalzi 1992

G. A. Scalzi, Galleria Tadini. Guida, Lovere, I-II, 1992.

Simon 1915

M. Simon: Az Esterházy-képtár története, Budapest 1915.

Sommi Picenardi 1909

G. Sommi Picenardi, Le Torri de’ Picenardi, Modena 1909.

Stoppa 2003

J. Stoppa, Il Morazzone, Milano 2003.

Tadini 1828

L. Tadini, Descrizione generale dello stabilimento dedicato alle belle arti in Lovere dal conte Luigi Tadini cremasco, Milano 1828.

Tanzi 1991a

M. Tanzi, Malosso e ‘dintorni’: dipinti e disegni, in “Prospettiva”, 61, 1991, pp. 67-74.

Tanzi 1991b

M. Tanzi, Problèmes crémonais: peintures et dessins, in Disegno, Actes du Col­loque organisé par le Musée des Beaux-Arts de Rennes (9-10 no­vem­bre 1990), Rennes 1991, pp. 37-42.

Tanzi 1993

M. Tanzi, Disegni del Seicento per Parma e Piacenza, in La pittura in Emilia Roma­gna. Il Sei­cento, tomo secondo, a cura di J. Bentini, L. Fornari Schianchi, Bologna 1993, pp. 208-216.

Tanzi 2004

M. Tanzi, Siparietti cremonesi, in “Prospettiva”, 113-114, 2004, pp. 117-161.

Tanzi 2015

M. Tanzi, La Zenobia di don Álvaro e altri studi sul Seicento tra la Bassa padana e l’Europa, Milano 2015.

Tanzi 2018

M. Tanzi, Gli amori milanesi di Camillo Boccaccino, in Attorno agli amori. Camillo Boccaccino sacro e profano, Brera a occhi aperti, Sesto Dialogo, catalogo della mostra (Milano, Pinacoteca di Brera, 29 marzo – 1 luglio 2018), a cura di E. Daffra, M. Tanzi, Milano 2018, pp. 31-81.

Tátrai 1991

V. Tátrai, Museum of Fine Arts Budapest. Old Masters’ Gallery. A Summary Catalogue of Italian, French, Spanish and Greek Paintings, Budapest 1991.

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