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Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento

Ettore Giovanati

Scritto da:

Ettore Giovanati

La mostra curata da Francesca Cappelletti e Patrizia Cavazzini, Meraviglie senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento (Roma, Galleria Borghese 25 ottobre 2022 – 29 gennaio 2023) ha il merito di porre l’attenzione del grande pubblico e degli addetti ai lavori, nei confronti di un tema, quello della pittura ad olio su pietra, che ha visto Roma come luogo privilegiato per la riscoperta di una pratica già descritta dalle fonti antiche (Plinio il Vecchio), riscuotendo una notevole fortuna per tutto il Cinquecento e buona parte del Seicento; successo testimoniato dalla commissione e produzione di dipinti su supporto lapideo di carattere pubblico e privato. 

La figura che giocò un ruolo chiave nello sviluppo di questa tecnica pittorica e la sua diffusione nell’ambiente artistico romano del XVI secolo, fu Sebastiano del Piombo, il quale sperimentò i colori ad olio prima sulle pareti della cappella Borgherini in S. Pietro in Montorio e poi sulla lastra della Natività della Vergine in S. Maria del Popolo, terminata da Francesco Salviati. Le ragioni di questo sperimentalismo tecnico si trovano nella volontà dei committenti e degli artisti di rendere la pittura ‘eterna’ in modo che “né il fuoco né i tarli potessero lor nuocere” per usare le parole di Vasari, in un momento storico in cui Roma aveva da poco subito ingenti danni a causa del Sacco avvenuto nel 1527. Se pur l’impiego di una materia come la pietra possa essere considerato una risposta alla fragilità dei dipinti su tela o su tavola, volto ad avvicinare la pittura alla scultura, il cui pregio espresso nel dibattito sulla superiorità tra le due arti era la durata nel tempo, la scelta e le ricerche del pittore veneziano in questo senso, rivelano motivi che vanno al di là dello stato conservativo. L’originalità dell’invenzione di Sebastiano e colta dai suoi contemporanei o successori come Daniele da Volterra, Jacopino del Conte e Francesco Salviati, rappresentati con diverse opere in mostra, sta nel concepire il supporto come portatore di significato, il quale insieme all’ immagine dipinta assume un valore simbolico, sia essa un ritratto, un soggetto sacro o profano. 

La tecnica inizialmente prevedeva lastre di lavagna o altri tipi di pietra scura su cui veniva applicata la pittura. Essa venne impiegata da un gran numero di artisti senza soluzione di continuità dalla seconda parte del Cinquecento fino al principio del secolo successivo, ritrovandola nelle più importanti chiese di Roma per la realizzazione di pale d’altare, tra cui, per citarne alcune: Le storie di San Giovanni (1566-1568) di Marcello Venusti e i dipinti con le Storie di Cristo con San Giovanni e Matteo Evangelista (1566-1568) di Girolamo Muziano in S. Caterina dei Funari, La Conversione di San Paolo (1564-1566) nella cappella Frangipani di Taddeo Zuccari, l’Assunzione in S. Silvestro al Quirinale di Scipione Pulzone (1583-1585), per giungere alle commissioni della Navicella di S. Pietro (1599) e alla Madonna della Valicella di Rubens (1606-1608) nella chiesa Nuova. Nel corso del Seicento, prima del suo abbandono alla metà del secolo, oltre ad essere utilizzata come supporto per le decorazione degli altari, l’ardesia venne adoperata per immagini di devozione privata, eseguite da pittori quali Alessandro Turchi e Pasquale Ottino e prima ancora nel secolo precedente da Jacopo e Francesco Bassano, apprezzate e commissionate dallo stesso Scipione Borghese. Ugualmente cominciarono a diffondersi pietre colorate stimate dai collezionisti per il loro effetto visivo, in cui la composizione era elaborata in relazione alle diverse screziature del supporto, diventando di fatto parte integrante della rappresentazione. 

Il percorso della mostra, articolato in otto sezioni che comprendono un totale di sessanta opere con importanti prestiti nazionali, internazionali e di collezioni private, è stato concepito proprio con l’obbiettivo di ripercorrere l’intera storia e l’utilizzo di questo genere di manufatti artistici, dalla sua nascita fino alla sua completa dismissione. 

L’allestimento predisposto su due piani della Galleria – tra il salone d’ingresso e la Pinacoteca – facilita il dialogo tra le opere esposte, coadiuvate da pannelli esplicativi e didascalici ben visibili al visitatore, senza ostacolare in nessun modo la visione dei capolavori della collezione permanente (Fig. 1). 

La prima sezione “La collezione e il colore delle pietre” denota l’interesse che dalla fine del XVI secolo,  si ebbe nei confronti dei marmi colorati, delle pietre dure, dei lapislazzuli, condizionando a sua volta la pittura su pietra, dando vita a oggetti straordinari, come orologi, stipi e monetieri contraddistinti da architetture complesse in cui si intrecciano in maniera unica pittura e scultura, arricchiti a loro volta da metalli e legni preziosi. Degni di una menzione particolare sono il piano in un tavolo di proprietà del Museo di manifattura romana (1590 ca.) composto da marmi policromi e pietre dure e lo Stipo (1620 ca.) appartenuto alla famiglia Borghese, ora al Getty di Los Angeles (Fig. 2), ritenuto tra i mobili di manifattura romana più straordinari, per stato conservativo, dimensioni, pregio dei materiali e preziosità ornamentale. Oggetti realizzati per uso esclusivamente privato o commissionati come dono diplomatico, come nel caso del piccolo altare con la Crocifissione (1577 ca.) di Guglielmo della Porta eseguito su lastra di ardesia, ma indicatori di un gusto per la policromia del marmo e delle pietre, che videro coinvolte con reciproci scambi le grandi corti dei granduchi di Toscana e di quella pontificia di papa Paolo V Borghese, con la realizzazione in parallelo della Cappella dei Principi in S. Lorenzo a Firenze e della Cappella Paolina in S. Maria Maggiore a Roma. 

Nello stesso salone ad evocare questa costante interazione tra pietra e colore, pittura e scultura, che si intersecano al fine di conferire all’opera d’arte un valore simbolico e intellettuale legato alla proprietà della materia lapidea, si trovano la Madonna col Bambino e angeli dipinto da Francesco Albani su lavagna (1611 ca. Musei Capitolini) e l’Allegoria del Sonno (1635-1636) scolpita da Alessandro Algardi in marmo nero del Belgio. La figura iconica del Bambino insieme alla scelta del pittore bolognese di lasciare a vista il supporto, allude alla pietra su cui Cristo costruì la Chiesa, allo stesso modo Algardi usò il marmo nero per richiamare l’oscurità della notte, infondendo all’opera scultorea un altro significato. 

L’itinerario della mostra riprende al piano superiore con la sala dedicata alla “Pietra dipinta e il suo inventore” in cui si possono ammirare tutta una serie di ritratti, i quali, come testimonia Vasari, furono i dipinti di Sebastiano del Piombo più apprezzati, commissionati da personaggi illustri tra Roma, Firenze e Venezia, forse per i risultati ottenuti dalla nuova tecnica e per la loro capacità evocativa, in grado di rendere imperitura la memoria dell’effigiato. Dell’artista veneziano sono i ritratti di Clemente VII (Museo del Real Bosco di Capodimonte, 1530 ca.) e di Baccio Valori (1531 ca.; Fig. 3), entrambi ad olio su ardesia, in cui egli diede prova dei risultati ottenuti dal suo nuovo metodo sulla lastra di pietra, con il desiderio di far propria quella durevolezza, tanto acclamata come qualità esclusiva della scultura nel dibattito tra le arti. Prove e tentativi da parte di Sebastiano che coinvolsero anche papa Clemente VII qui ritratto, secondo quanto riporta Soranzo nelle sue lettere. La maestria dell’artista e tutte le possibilità della tecnica ad olio si possono osservare nell’incredibile dipinto raffigurante Baccio Valori, che il restauro del 2014 ha riportato all’antico splendore già descritto da Vasari, in cui le tonalità cangianti rosse e blu delle vesti sono messe in risalto dalla lucentezza del supporto, così come della stola d’ermellino, si possono notare uno ad uno, eseguiti finemente a punta di pennello, i singoli peli che la compongono. Ancora a testimonianza nella sala del successo immediato ottenuto da Sebastiano presso i suoi contemporanei sono i ritratti di Piero di Filippo Strozzi di Francesco Salviati, realizzato dal pittore sia su porfido rosso (Écouen, Museé National de la Reinassance),  che su marmo africano rosso e nero (collezione privata), e infine quello con Cosimo de’ Medici attribuito a Bronzino della collezione Abellò di Madrid (1560 ca.).

Utilizzo a dir poco unico ne fa Leonardo Grazia da Pistoia protagonista della terza sezione “Fermare la Bellezza”, il quale usa la pietra per rappresentare figure femminili ricavate dalla mitologia e dallo storia romana, come i due esemplari Borghese con Cleopatra (1530-1540) e Lucrezia (1534 ca.; Fig. 4), eseguite con il proposito di immortalare la sensualità dei volti e dei corpi. Soggetti di carattere profano raffiguranti eroine e divinità classiche tipiche nella produzione dell’artista pistoiese richieste dalla committenza privata, il quale le dipinse anche su altri supporti come le tavole con le rappresentazioni di Ebe (Gallerie Nazionali di Arte Antica, 1530-1535) e di Venere (1540), quest’ultima esposta in maniera permanente all’interno della sala del museo. Questo tipo di raffigurazioni a sfondo erotico spesso erano commissionate in serie per decorare camerini caratterizzati da immagini licenziose, che ebbero una discreta fortuna nelle dimore dei più facoltosi mecenati del tempo. 

Il percorso prosegue nella Loggia di Lanfranco in cui, in una successione di teche erette su alti piedistalli, sono esibite una serie di lastre dipinte, di pietra scura o di marmi policromi e venati, raffiguranti scene di carattere religioso, da qui il titolo della sezione “devozione eterna come il marmo”.

In ambito veneto grazie a Jacopo Bassano e poi al figlio Francesco il fondo scuro della pietra lasciata a vista, venne associato a episodi raffiguranti la Passione di Cristo talvolta animati da tocchi d’oro, poi ripresi dai pittori veronesi Alessandro Turchi e Pasquale Ottino, i quali resero la superficie a risparmio talmente lucida in modo da riflettere l’immagine del fedele per renderlo partecipe all’evento sacro. Né sono un chiaro esempio la lastre centinate e dipinte da Francesco Bassano con le scene dell’Orazione dell’orto e del Cristo deriso (Milano, Fondazione Giulini Giannotti, 1570-1580 ca.), insieme alla Resurrezione di Lazzaro dell’Orbetto (1617), già di collezione Borghese e tuttora di proprietà del museo. L’oscurità del supporto si adattava perfettamente alla rappresentazione di immagini religiose drammatiche, ispirando devozione al loro possessore. Molti di questi dipinti si trovavano infatti, ai capoletti di importanti esponenti della Chiesa, una dimostrazione di quanto appena detto è il Cristo Morto di Turchi (1616-1617; Fig. 5), commissionato da Scipione Borghese, collocato nella villa nel 1650 nella Stanza del Sonno, insieme alla Allegoria scolpita da Alessandro Algardi. 

Artisti e collezionisti sul finire del Cinquecento a Roma iniziarono ad apprezzare le qualità mimetiche delle pietre colorate o traslucide, preparate e intagliate appositamente nelle botteghe di orafi e tagliapietre. Questo particolare interesse era dettato dalla qualità intrinseca del marmo e delle pietre screziate, le quali formavano per mezzo delle venature, potenziali immagini, poi rivelate dal pittore. Anche questa tipologia di pietre come supporto erano portatrici di significato se contestualizzate con la rappresentazione sacra, come nel caso dell’Annunciazione, episodio raffigurato su alcune lastre esposte in mostra, ed eseguite da diversi artisti, quali: Orazio Gentileschi, Antonio Tempesta e Sigismondo Laire. Ad essa era collegato il passaggio della luce attraverso le pietre opalescenti come l’alabastro, considerato come simbolo della Ressurezione di Cristo. La proprietà di questi materiali induceva talvolta l’artista a dipingere su entrambi i lati della lastra, come nel piccolo altare di Laire, il quale rappresenta sul verso la Resurrezione di Cristo, (Madrid, Patrimonio Nacional, Collecciones Reales, 1594; Fig. 6) un’immagine che, come le scene della Passione, della Morte e della Resurrezione spesso sono raffigurate ponendo in relazione il grembo di Maria e la pietra del sepolcro, entrambi corpi fisici ‘attraversati’ da Cristo senza arrecargli alcun danno. Di questo genere è un piccolo dipinto su alabastro catognino eseguito dal pesarese Simone Cantarini con la Pietà (Madrid, Patrimonio Nacional, Colleccionese Reales. Real Monasterio de San Lorenzo de Escorial, 1640 ca.) che risulta essere una copia in controporte, forse ottenuta da un’incisione, del dipinto di analogo soggetto di Annibale Carracci, conservato a Capodimonte. 

La possibilità, offerta dall’ardesia e della pietra di paragone di avere un supporto scuro su cui dipingere, fu sfruttata da molti pittori italiani e stranieri, per creare forti contrasti luministici adatti alla rappresentazione di scene ricche di pathos con soggetti spesso infernali, in cui le tenebre o l’oscurità delle notte sono squarciati da fuochi o incendi. Nella sezione “Una notte nera come la pietra” si possono trovare invenzioni di Hans Rottenhammer,  Filippo Napolatano e Stefano della Bella, in cui  l’atmosfera è animata dal fulgore delle fiamme, che illuminano inquietanti figure, in qualche caso mostruose come nel Dante e Virgilio all’inferno (collezione privata, 1618-1621 ca.; Fig. 6) dello stesso  Filippo Napoletano. 

Nella sesta sezione “dipingere con la pietra” la vera protagonista è la pietra paesina, ricavata dai ciottoli della Valle dell’Arno, la quale attraverso un processo di taglio e lavorazione per rendere la superficie lucida e levigata, può assumere una configurazione ondulata o fratturata. Essa aiutata dall’intervento pittorico risulta ideale per la rappresentazione di paesaggi o fondali architettonici, come nella Presa di Gerusalemme (1610-1620) di Antonio Tempesta, in cui i due eserciti, cristiano e turco, si affrontano ai piedi e sulla mura della città; oppure come nel Ruggero che libera Angelica dall’orca (Firenze, Istituto Nazionale di Studi Etruschi, 1618-1619; Fig. 7) di Filippo Napoletano, in cui l’artista approfitta degli accidenti della pietra per adagiare Angelica sulla costa rocciosa, nel mentre che tra le nuvole, ricavate dalla venature della pietra, l’eroe ariostesco a cavallo del suo destriero alato sta per infliggere il colpo decisivo al terribile mostro marino. 

La raffigurazione dell’episodio tratto dall’Orlando Furioso, conduce idealmente il visitatore al prossimo tema affrontato nella mostra: l’ “Antico e allegoria”, in cui si trovano rappresentazioni tratte dalla mitologia e dalla poesia classica, dal bellissimo esemplare su pietra paesina del Cavalier d’Arpino con Perseo e Andromeda (Collezione Pejelu, 1593-1594 ca.; Fig. 8) all’accezione tragica del mito espressa dagli artisti veronesi Turchi e Ottino, come nella Medea che rende la giovinezza a Esone (Collezione privata, 1608-1609 ca.; Fig. 9), la quale come descritto nel rituale macabro delle Metamorfosi di Ovdio, per ringiovanire Esone, sostituisce il suo sangue con una pozione magica, conferitagli dalla divinità infernale Ecate. Incarnano perfettamente lo spirito della sala la Venere e Marte di Ottino e la lastra di pietra di paragone con la Volontà, Intelletto e Memoria (Regno Unito, Collezione privata, 1620 ca.) dell’Orbetto, le quali personificano le parole agostiniane, secondo cui le tre facoltà furono donate da Dio all’uomo durante la sua creazione, affinché lo riportasse al mistero della Trinità. 

Generalmente il costo sostenuto dagli artisti per procurarsi il materiale lapideo non era molto dispendioso, ma in alcune circostanze si può riscontrare l’uso del lapislazzulo. Esso, fornito dai committenti, era impiegato in piccole quantità per la rappresentazione del mare e del cielo, oppure in sottili lastre usate con la funzione di supporto, come accade nell’ovale a due facce realizzato a tempera con le raffigurazioni di Perseo e Andromeda e di Venere e Adone (1610-1620 ca.) di Antonio Tempesta, esposto nella Sala di Elena e Paride che conclude la mostra. Lapislazzulo, in questo caso, ottenuto forse mediante gli scarti derivati dalla decorazione della Cappella Paolina in S. Maria Maggiore. Spesso la lastra era applicata ad altri sostegni in pietra come l’ardesia o la lavagna, come nella bellissima Annunciazione (Parigi, Galerie Kugel, 1650-1660 ca. ) di Francesco Allegrini impreziosita dalla cornice in rame dorato con inserti di pietre dure, oppure nel Riposo durante la fuga in Egitto (Collezione Pejelu, 1629-1630) di Jacques Stella, autore di molte opere su pietra tra Roma e Firenze nei primi decenni del XVII secolo. 

Lo stupore negli occhi del visitatore suscitato della possibilità di osservare da vicino oggetti unici e singolari nel loro genere, veri valori aggiunti dell’esposizione, è accompagnato da uno studio attento della materia. Le curatrici hanno concepito un percorso, il cui file rouge, e il significato sotteso alla mostra, non viene mai meno nelle singole sale. La diretta interazione tra pittura e materiali lapidei riflette nella creazione artistica l’interesse per la natura e l’arte figurativa, entrambi rappresentativi del gusto collezionistico della Roma del Cinquecento e del Seicento. 

*Ringrazio la dott.ssa Benedetta Delle Cave per le fotografie delle opere in mostra.

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