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I Maestri: intervista a Paolo Portoghesi

La rubrica di interviste ai maestri giunge al secondo appuntamento, e dopo Antonio Paolucci abbiamo dialogato con l’architetto e storico dell’architettura Paolo Portoghesi. Anche stavolta un incontro fuori porta, nella sua casa di Calcata (VT).

Arriviamo al crepuscolo, con gli ultimi flebili raggi di sole trattenuti dalle nuvole. Essendo in anticipo passiamo a vedere la chiesa progettata da Portoghesi a Calcata nuova, dedicata ai santi Cornelio e Cipriano. La chiesetta, quasi un fiore tufaceo, dialoga con gli edifici antichi della valle del Treja, innestandosi con armonia del tessuto storico del territorio. Ci avviamo verso casa Portoghesi, costruita al di sopra del vecchio paese a partire da sette fienili antichi, allargatasi poi negli anni acquistando fazzoletti di terreno e costruendoci biblioteche, fontane, laghetti e altre bizzarrie ispirate ad architetture del passato. Ad oggi la casa e il giardino si presentano come tempio e rifugio, luogo dal fascino esotico, dallo stupore barocco e al contempo dall’aspetto vetusto, proiezione della personalità e degli interessi dello studioso Portoghesi e della moglie Giovanna Massobrio.

Edifici antropomorfi nel giardino di Calcata.

Entriamo in punta di piedi, offrendo in dono alcuni libri al Professore. Suscita  particolare entusiasmo in lui il volume “Arte come unità del molteplice. I fondamenti critici di Leo Steinberg” (di Daniele Di Cola, Pubblicato da De Luca all’interno della Collana Esordi). Ci racconta che il critico statunitense d’origini russe fu molto importante per lui, ed iniziamo così la nostra intervista…

P.P. Lui ha scritto questo magnifico libro su san Carlino che io sono tra i pochi privilegiati a possedere. Ci siamo incontrati in un momento determinante; avevo già da tempo affrontato il tema di Borromini, ma mi mancava la conoscenza del materiale conservato a Vienna, e lui mi fece vedere questi disegni e molte fotografie. Poi purtroppo non ha deciso di continuare, ma il suo libro su san Carlino resta la monografia più importante, perché è stato il primo a mettere in luce l’aspetto culturale della formazione borrominiana, questi mille libri che aveva che all’epoca erano una cosa impressionante. Steinberg era una persona deliziosa, aveva una grande capacità di esprimersi. Il mio incontro con lui è stato molto nutriente.

C.S. Come nasce l’interesse per l’architettura nel giovane Paolo Portoghesi?

Nasce dal fatto che sono nato a via Monterone, quindi uscito di casa dopo qualche passo vedevo protagonista la cupola di Sant’Ivo. E credo che quello da piazza Sant’Eustachio sia il punto più interessante da cui vederla, perché non è inquadrato come quello ufficiale della corte, ma è invece inserita nella città, come fosse una specie di architettura virtuale; perché il palazzetto di Giulio Romano, che in alcune incisioni viene spostato, in effetti lui l’ha considerato come un elemento virtuale che può essere eliminato, e che però, impedendo la vista completa, contribuisce a dare senso a quella facciata. Io mi sono accorto dell’esistenza di questo edificio quando andavo alla scuola elementare, che era l’Aristide Gabelli, un edificio che si incastrava dentro questo tessuto antico. Questo Borromini me lo sono ritrovato poi molto vicino alla casa dei miei nonni a via della Chiesa Nuova, vicino all’Oratorio dei Filippini, e mi domandavo perché mai un edificio fosse così diverso dagli altri.

Più avanti conobbi Wittkower, che mi aveva chiesto di scrivere un libro su Bernini, cosa che volevo fare, ma solo dopo aver studiato bene Borromini. Alla fine non ho più fatto questo libro, anche perché i miei amici Fagiolo nel frattempo ne avevano fatto uno, quindi non era più necessario. Però mi ricordo che mi avevano dato un anticipo di 170 mila lire, quindi ogni tanto mi sveglio con questo senso di colpa di non aver adempito a un dovere (ridiamo insieme ndr). Avendo preso di mira Borromini poi l’interesse per Bernini si è ridimensionato, sia perché per molti anni è stato un dominatore, usando strumenti tutt’altro che leciti, facendone di tutti i colori (se Urbano VIII non lo obbligava a sposarsi sarebbe finito in galera come Caravaggio). Bernini aveva un temperamento terribile, anche un po’ mariuolo, fece colpire dall’acido sul viso Costanza Bonarelli.

C’è quindi anche un discorso di empatia nei confronti di Borromini? Una preferenza umana?

Sì, diciamo che io non sono uno storico dell’arte, e forse nemmeno un architetto, sono un personaggio che si è inserito in questi campi sempre però con interessi che deviavano da quello scientifico. L’architettura come affermazione di un principio, e la storia come storia di vicende umane di grande significato e di grande ricchezza.

Roma amor è un suo libro molto bello che racconta del rapporto complicato, appunto di odio e amore, nei confronti dell’Urbe. Romano di nascita e studioso della sua forma e delle sue architetture, da molti anni vive qua a Calcata, ritirato, forse deluso dalla città. E mi viene in mente, in maniera diversa ma con alcune analogie, Pier Paolo Pasolini, che so essere un autore da lei molto letto e amato. Allo stesso modo, infatti, Pasolini, folgorato da Roma che studierà e riporterà sotto varie forme nelle sue opere, ne rimarrà fortemente deluso per andarsene poi non troppo lontano da qui, nella torre di Chia.

Pasolini è stato forse l’unica persona che ha capito davvero la città in quegli anni. E poi l’ha vissuta in modo sempre più doloroso, fino a quando ad un certo punto ha sentito il bisogno di uscire e di ritirarsi nella torre a Chia (che tra l’altro è un edificio che ha una sua qualità architettonica considerevole, fece fare sotto delle trasformazioni, sebbene l’architettura non fosse la sua passione).

Io ho vissuto a Roma in un’epoca in cui era effettivamente uno dei centri culturali del mondo. Per dirne una sul piano proprio materiale, si andava la sera in trattoria e si incontravano sempre un paio di intellettuali di grido, Rossellini, Flaiano, Moravia, Pasolini appunto, che era un frequentatore della trattoria della Campana. Lì ci siamo visti qualche volta, ma non avevo il coraggio di avvicinarlo. Quello che mi è sempre piaciuto di Pasolini è questo vivere la città fino in fondo, e poi maledirla, sentire il bisogno di uscire da queste mura, cosa che lui ha fatto soprattutto nel cinema. Effettivamente la Roma di allora era molto diversa da quella di oggi. Quella odierna è un anti-Roma. Una delle cose che odio di più, forse immotivatamente, è questo gusto del restauro che coincide con una ripulitura così radicale. Adesso la cupola di san Pietro è una cosa disastrosa!

Quasi un accanimento terapeutico…

Sì, che poi questo piombo della cupola soltanto nei secoli diventa bianco. Aveva raggiunto un grado di colorazione affascinante. E poi, essendo un edificio posto molto in alto, era in qualche modo esposto al lavaggio della pioggia, per cui non c’era quell’eccesso di brunitura che potrebbe essere anche dannoso. Secondo me c’è qualcosa di veramente profondo in questa volontà del restauro di riportare indietro fino all’epoca in cui una cosa è stata costruita. È il rifiuto della vita. Alla fine diventano degli spettri questi edifici. Meno male che quelli che stanno dentro la città sono rapidamente ricolorati dallo smog, basta vedere san Carlino (ride ndr). La facciata di San Pietro per esempio era stata restaurata molto bene, ripristinando anche delle colorature originali che erano state trovate sul posto, invece il colonnato è stato distrutto, aveva dei chiaroscuri meravigliosi.

È una città, Roma, che è terribilmente peggiorata. Il mondo intellettuale sì, resiste, ci sono certamente persone intelligenti e di qualità, ma non certo la densità che c’era all’epoca.

Ma Roma non è sempre stata così? Non fa parte della sua essenza questa idea di decadenza? Già Pirandello diceva “Roma era un acquasantiera, l’hanno trasformata in un posacenere”, ed era una Roma ancora splendida, prima di tante deturpazioni.

Beh sì, odi et amo vuol dire essenzialmente questo. È una città che ha sempre avuto la barbarie dentro di sé. Basta leggere la storia. Io ho citato molto Leopardi nel mio libro, perché mette a fuoco bene questo fatto che Roma ha una dimensione eccessiva, già allora quando non c’era questa selva di edifici. Roma ha questo fascino della doppiezza; è un luogo che ha suscitato e fatto nascere tanto, ma alla fine tutto tende a spegnersi. Ho deciso di andarmene perché la civiltà che sta crescendo è una civiltà dalla quale bisogna difendersi. Se uno non oppone con forza qualcosa a questa disumanizzazione crescente, diventiamo vittime di un autolesionismo umano. Io credo che sarà proprio la natura a imporci di cambiare questo stile di vita, e in questo cambiamento si recupereranno aspetti della cultura che sono andati perduti. Quindi ho fiducia nel futuro, però deve essere un futuro totalmente diverso. Bisogna cominciare a pensare al ruolo che può avere il pensiero, l’arte, in un mondo che si pone il problema della salvezza dell’abitabilità.

Le chiese costruite oggi sono per la maggior parte brutte, se non orribili. È perché gli architetti non credono in Dio?

Avere un rapporto con la divinità è essenziale per costruire una chiesa. L’atteggiamento della chiesa di oggi è quello di dire “beh piuttosto che una chiesa brutta fatta da un credente è meglio una chiesa bella fatta da un non credente”. Il che già dimostra come la chiesa abbia una forte responsabilità.

Lei invece, nel costruire la moschea di Roma, ha fatto uno studio della religione islamica, un approfondimento del Corano.

Sì io ho avuto l’occasione di vivere in alcune città islamiche, e di cercare di capire il senso della loro religione, e poi naturalmente ho studiato. Quindi quando c’è stato questo concorso ho sentito che lo dovevo fare, perché c’era già un interesse molto forte nei confronti di questa religione; c’è qualcosa nell’Islam che merita di essere ascoltato. Quindi io ho pensato alla moschea come un’opportunità per far ascoltare ai romani qualcosa di questo messaggio che è stato sempre un po’ ridicolizzato.

Ma già Goethe aveva capito che Maometto non è un cretino qualsiasi insomma!

È stata per me una grandissima occasione. Questa moschea rappresenta anche la duplicità dell’inserimento, perché da una parte all’interno è un edificio che ha tutti i numeri, all’esterno si adegua al paesaggio, cercando di riportare dentro qualcosa che l’Islam ha ereditato direttamente dal mondo classico, queste selve di colonne, questi portici, che a Roma non ci sono più. Ma Roma aveva chilometri e chilometri di  portici nell’antichità. Quindi ho pensato di riproporre il portico come elemento fondamentale per unire l’edificio con la città. E poi anche per tener conto che l’edificio sacro non è solo un interno, ma nella tradizione islamica è sia interno che esterno. Quella della moschea è stata per me una bella occasione che mi ha permesso di manifestare il mio legame con Roma e allo stesso tempo la voglia di contrapporre ad una certa monotonia della città cristiana un elemento invece di diversità che in qualche modo rievocasse il fatto che Roma, almeno per un certo periodo, è stata la centrale delle religioni. E tutto sommato il Pantheon rimane con forza ad affermare questo fatto che uno dei meriti dei romani, o almeno di Adriano, sia stato quello di pensare che si potessero unire insieme tutte le religioni. E se si guarda la moschea si vede che l’ispirazione del Pantheon è diretta.

Interno della moschea di Roma progettata da Paolo Portoghesi.

Nella scorsa Biennale di Architettura, intitolata “How will we live together?”, gli architetti cercavano di far fronte ai numerosi problemi del nostro presente cercando di proporre delle soluzioni concrete che l’architettura può e deve fornire. Delle tante proposte, tra il funambolico e il futuribile, emergeva anche quella di un ritorno all’architettura vernacolare. Crede che possa essere una soluzione?

Io credo che in molti paesi del mondo la soluzione sia mantenere le tradizioni o recuperarle. Basta pensare all’Africa. Io ho una rivista che si chiama “Abitare la terra”, in cui propongo le cose che mi sembrano più credibili, e pubblico moltissime costruzioni africane. In Africa, mancando la ricchezza e il gusto per l’esibizione, si realizzano degli edifici che rispondono ancora ad una logica pre-tecnologica. E quindi scelgono le cose che costano di meno, che consumano di meno, che sono più leggere, e questo è quello che saremo costretti a fare anche noi secondo me. L’Occidente ormai si illude che sarà la tecnologia a salvarlo. Io non credo. La tecnologia è molto utile, certo, ma deve essere mirata a salvare la terra dai disastri. D’altra parte l’architettura per molto tempo ha seguito questa strada. Oggi esiste una visione, quella territorialista, che si oppone all’idea che la città sia il luogo della civiltà. E una visione territorialista non può che considerare prioritario il fatto di occuparsi del benessere della terra. Bisogna che ci sia una volontà politica, e questa volontà può nascere solo dal desiderio di cambiare lo stile di vita, che deve diventare quello che unisce la civiltà umana.

Crede che tornare ad abitare le aree interne dell’Italia in abbandono possa essere una soluzione?

Il territorialismo predica proprio questo, la cura del territorio intesa proprio come il rendersi conto di quali sono le necessità per conservare in pieno la qualità che offre il paesaggio italiano. E naturalmente questo vuol dire decongestionamento della città, cosa che sta avvenendo, sebbene trattenuta da una serie di fenomeni. Guardare il territorio oggi vuol dire, ad esempio, che bisogna tornare ad occuparsi dei fiumi. Una volta il fiume, nella tradizione italiana, era oggetto di tutte le attenzioni possibili.

Lei ha detto che gli architetti dovrebbero imparare dagli agricoltori, sotto quale aspetto?

La cosa straordinaria dell’agricoltore è la saggezza. L’agricoltura è il frutto di una riflessione iniziata migliaia di anni fa. È interessante rivedere dei trattati antichi di agricoltura, noi pensiamo che l’agricoltura sia una cosa spontanea, ma non è così. Da Virgilio in poi l’agricoltura è legata a delle leggi, dei sistemi, e costituisce una prima lettura delle vocazioni di un territorio, e poi costituisce l’elemento caratterizzante del paesaggio. Se noi guardiamo ad esempio il Montefeltro, dove c’è la tradizione di mettere gli alberi tra i confini delle proprietà, guardandola dall’alto questa terra sembrerà disegnata. Questo ha creato il paesaggio di Piero della Francesca. Allora occupiamoci di queste cose. Anche il turismo deve cambiare, è inutile far sì che Venezia si riempia di gente in modo tale da non essere più se stessa. Sarebbe molto più interessante che la gente andasse a scoprire per esempio il paesaggio della laguna, che è molto affascinante ma di cui nessuno si occupa, e bisognerebbe organizzare dei sistemi con cui rendere visibile il paesaggio, ad esempio quello degli areostati, che sono fantastici per il turismo paesaggistico. In Turchia è pieno, qui no.

Il tema delle periferie è centrale per l’architettura di oggi. Nel secondo Novecento, credendo di mettere su grandi progetti avanguardistici, sono stati costruiti quartieri disumani, con edifici enormi, presto percepiti come brutti e invivibili. Perché è accaduto questo?

in Italia c’è un esempio straordinario, il famoso piano Fanfani (INA-Casa ndr), che non è nato per costruire le case, ma per occupare i lavoratori. Si costruivano case di dimensioni limitate, massimo tre piani, e i finanziamenti arrivarono dappertutto. Questo ha caratterizzato gli anni Cinquanta, poi con gli anni Sessanta ha cominciato la corsa al progresso. La tecnologia, esacerbata e santificata ha creato Corviale, un edificio che ha gli stessi abitanti di una cittadina, e sono tutti costretti in questo vermicone, dove i sociologi hanno scoperto che il fatto di dover passare per una balconata per uscire di casa crei un controllo sociale pauroso. In pratica è diventato un luogo che produce conflittualità, e questo ormai è documentato. Il serpentone e gli edifici sovietici di Mosca o dell’Ucraina che vediamo adesso bombardati, sono in pratica la stessa cosa, edifici troppo grandi e troppo alti, costruiti con l’idea che costruendo in altezza si risparmia territorio, che non è del tutto vero. Sono stati fatti errori clamorosi, creando delle condizioni per cui uno non ama più la propria casa, ma la odia. Tra abitazione e città ci doveva essere quella continuità che c’è ad esempio nella Roma del Sei e Settecento, in cui la gente d’estate preferiva stare fuori casa. Io dico sempre di guardare le incisioni di Piranesi, a parte la bellezza delle immagini, sono piene di gente, e di gente disegnata con una cura e un senso dello humour straordinario, e in queste incisioni la monumentalità di Roma si sposa perfettamente con questa quotidianità. Oggi manca proprio lo spirito necessario per affrontare i problemi urbanistici. Il sindaco pensa di far risolvere i problemi da Stefano Boeri, il quale ha inventato questo fatto di mettere gli alberi sulle terrazze. Boeri secondo me si ispira a certi architetti giapponesi che hanno fatto delle cose molto interessanti, ma mai con la stupidità di pensare di mettere un abete su un balcone. Roma per poter intervenire ha bisogno di essere innanzitutto conosciuta, e vai a prendere un personaggio che non la conosce a fondo (poi io non ho nulla contro di lui, ha scritto anche dei libri che non sono sciocchi). Ma devono aver pensato che essendo un architetto celeberrimo i romani sarebbero stati contenti.

È l’annosa questione delle Archistar. Anche per il nuovo centro congressi dell’EUR, la Nuvola, fu scelta un archistar, Fuksas. Ricordo che lei dichiarò che la Nuvola era un edificio già obsoleto appena inaugurato.

Intanto c’era un progetto in essere di allargare il Palazzo dei Congressi, occupando quella zona dove c’era il Luna Park. Si poteva fare senza problemi. Si poteva evitare questa nuova costruzione. Il progetto aveva qualche merito, l’oggetto sospeso ha un suo fascino. Ma poi invece è appoggiato malissimo per terra, perché non è riuscito a trovare un ingegnere geniale, se fosse stato Nervi lo avrebbe risolto facilmente.

La sua definizione di “città intesa come colloquio” mi piace molto, per questa idea di dialogo tra i cittadini e gli edifici.

Una volta la città sapeva dialogare benissimo con i suoi abitanti. Prendiamo il caso di Siena: piazza del Campo è una rappresentazione della città nella sua struttura sociale, con l’edificio del comune, i palazzi patrizi e un tessuto edilizio che unifica tutto. E poi c’è questa idea del teatro, il fatto che la città appartiene a tutti e deve essere sentita come qualcosa di unificante. Siena in questo senso è un capolavoro assoluto, quando c’è il palio la gente mangia per strada, si vedono tavoli lunghi centinaia di metri, e finalmente si capisce che essere cittadini in fondo vuol dire appartenere ad una stessa famiglia.

Fuori dalla sua casa c’è un cartello con scritto “qui si allevano asini”, e so che nel giardino ce ne sono molti. Da dove deriva questa passione per gli asini?

L’asino è importante perché è un animale selvatico che però è pronto ad allearsi con l’uomo, e quindi sono ancora più dei cani degli animali che si immedesimano. La mia passione è stata alimentata chiaramente dal film di Bresson, “Au hasard Balthazar”, che è effettivamente un capolavoro assoluto, in cui l’asino è il testimone della follia dell’uomo, della sua cattiveria e aridità. Col suo sguardo così paziente fa capire che ci sarebbe tutta un’altra strada da percorrere. È un invito anche qui a cambiare.

Paolo Portoghesi a Calcata a dorso del suo asino, accanto all’opera “L’asino immortale” di Nino Ucchino.

Il suo giardino di Calcata è un Eden, un locus amoenus, un buen retiro?

È un Eden, ma nello stesso tempo c’è questo tempio degli dei fuggiti. È un tentativo di coinvolgere la religione sia pagana che cristiana, tutto questo poi mescolato con i libri, perché ci sono parecchie biblioteche nel giardino. È stata per me una cosa importantissima, abbandonata la città volevo riavvicinarmi alla natura, all’amicizia degli animali. Purtroppo al momento non la posso accompagnare in giardino, ma le faccio dono di questo mio libro che racconta la casa di Calcata e il giardino.

Mi porge il volume “Abitare poeticamente il mondo” (Gangemi editore, 2021). È un verso di Hölderlin giusto? Lei è un grande appassionato di poesia.

Si, per me Hölderlin è un personaggio molto importante, perché c’è questa ambizione di una sintesi di ragione e sentimento, e anche di questo accostamento delle religioni tra loro.

Lei dice di aver imparato di più dai poeti che dagli architetti. È così?

Sì beh, diciamo che ho imparato molto dagli architetti poeti! A parte Borromini, che è il mio prediletto, ho amato molto anche Alvar Aalto, e poi Balthasar Neumann, Leon Battista Alberti, di cui curai la prima traduzione del De re ædificatoria.

Un libro di studi che consiglierebbe?

Mi faccia pensare. Tra i molti, un libro che consiglierei è quello di Calvesi sul Polifilo (Il sogno di Polifilo prenestino. Roma, Officina Edizioni, 1983 ndr). E poi di Calvesi ho un bellissimo ricordo, quando ero presidente della Biennale gli affidai le arti visive e fece delle mostre bellissime.

E uno di letteratura?

Consiglio molto libri di filosofia, ad esempio Heidegger. E poi Rilke, che è stato un nutrimento fondamentale da quando ero adolescente, le Elegie duinesi, e Rimbaud.

Vogliamo suggerire anche un film?

Bresson, con il succitato Au hasard Balthazar.

Nella sua palazzina “Casa Papanice”, che è molto cinematografica, furono girati molti film, tra i quali Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) di Ettore Scola (1970). Ad oggi la casa non versa in ottime condizioni.

Sì purtroppo l’ambasciata di Giordania che oggi ha sede nella palazzina ha distrutto tutti gli interni, tutto abusivamente senza nessun progetto di trasformazione. Mi ero rivolto al ministro ma non c’è stato verso, vediamo ora se Sgarbi può fare qualcosa.

Casa Papanice, opera di Paolo Portoghesi costruita tra il 1966 e il 1968.

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