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Marc Chagall in occasione delle mostre di Mestre, Milano, Otranto e Torino

        Alle due mostre aperte a Mestre nel Centro Culturale Candiani, Il colore dei sogni, a cura di Elisabetta Barisani, e a Milano presso Artemial (dove Gioia Sardagni Ferrari raccoglie, con il titolo Sogni e leggende, dieci opere provenienti da una raccolta privata), si sono ora aggiunte le esposizioni di Otranto, nel Castello Aragonese, La magia di Marc Chagall, e di Torino, a Palazzo Barolo, Gli stati dell’anima. Esse ci invitano a riparlare del grande pittore nato in Russia, a Vitebsk, il 7 luglio 1887 da una famiglia ebraica e morto a Saint-Paul-de-Vence il 28 marzo del 1985, che, dopo i soggiorni a Parigi nel 1910, nel 1923 e nel 1947, si spostò nel 1949 in Provenza dove rimase definitivamente.
       Il mio libro I miti di Chagall, ormai risalente a più di sessant’anni fa, è dedicato a Lionello Venturi: quando è stato scritto non avevo ancora la minima idea di quale piega avrebbe preso la mia vita, e che la storia dell’arte ne sarebbe stata al centro; Marc Chagall del resto, a quel tempo, era ancora all’inizio del suo cammino e doveva compiere una lunga traiettoria, cosparsa di innumerevoli successi1. Ne isoleremo alcuni, fra i più rappresentativi e fra quelli che il mio studio – pubblicato due anni dopo l’edizione italiana di Ma Vie, libro che rappresenta una conferma cercata nel registro letterario di quelli che erano stati i raggiungimenti nel registro figurativo – tiene presenti2: lamateria biblica, ricorrente nell’arte chagalliana, e il Circo, un testo del 1967 illustrato da trentotto litografie.
Nel 1973 Chagall scriveva: «Fin dalla mia giovinezza sono stato affascinato dalla Bibbia. Mi è sempre sembrato e mi sembra ancora la più grande fonte di poesia di tutti i tempi. Se gli uomini volessero leggere con più attenzione le parole dei profeti potrebbero trovarvi le chiavi della vita»3.
Stranamente questi due temi – le suggestioni bibliche e il circo – sono dal pittore sempre fra di loro congiunti; a questo proposito infatti egli così si esprime: «Clown, acrobati e attori come esseri tragicamente umani somiglianti ai personaggi di certi dipinti religiosi. E ancora oggi, quando dipingo una crocifissione o un altro quadro religioso, provo di nuovo quasi le stesse sensazioni che provavo dipingendo la gente del circo. Tuttavia non c’è niente di letterario in queste pitture ed è difficile spiegare perché trovo una somiglianza fisico-psichica tra questi generi compositivi»4. Sempre nel 1967 le opere del Messaggio biblico (una serie di dipinti di grandi dimensioni iniziata nel 1957 e terminata nel 1966, dodici dei quali contenenti episodi della Bibbia e cinque, dedicati a Bella, del Cantico dei Cantici) vengono donate al Louvre, dove sono temporaneamente esposte, prima di essere trasferite nel Museo di Nizza: nel 1969 viene infatti posta la prima pietra del Musée National Message Biblique Marc Chagall – che verrà inaugurato il 7 luglio 1973, data del compleanno del pittore -, il solo in Francia dedicato a un artista vivente e voluto dallo scrittore André Malraux, suo grande amico5.

Fig 1 Marc Chagall, Elia svegliato e confortato dall’angelo, dalla Bibbia, Parigi1956, tav. 87, acquaforte acquerellata, mm 530×390 (Chagall delle meraviglie, catalogo della mostra, Roma, Complesso del Vittoriano, a cura di C. Beltramo Ceppi Zevi e M. Meyer, Skira, Milano, Skira, 2007, p. 291).

È il caso di ricordare poi anche le tempere e le acqueforti che illustrano la Bibbia, pubblicate per la prima volta a Parigi da Tériade nel 1956; tra le quali si potrebbe isolare Elia svegliato e confortato da un angelo (fig. 1), forse allusivo all’episodio di quando volendo morire il Profeta si ritira sull’Orebbo, monte di Dio, sul quale assiste a un’apparizione divina6. E a conferma del senso mistico e religioso assunto dal circo (perfino un anno prima della morte il pittore affronta questo tema), potrei citare una gouache rappresentante appunto un Circo donatami da Venturi e che aveva, prima della firma, la seguente scritta: pour les Venturi bon Nöel” (data la preziosa dedica penso potesse avere attinenza con le diciannove conosciute ed esistenti, realizzate per Vollard nel 1927), la cui precipua caratteristica era un ovale dorato che dominava la scena stranamente rievocando le sagome dei mandala, quali si tracciano i mistici dell’Estremo Oriente7 (avrebbe anche potuto del resto essere un bozzetto per il quadro intitolato Il circo rosso ,fig. 2).

Fig. 2 Marc Chagall, Il circo rosso, Saint-Paul-de-Vence, 1960, collezione privata, mm. 1300×970, oio su tela, mm 1300×970 (Chagall delle meraviglie, catalogo della mostra, Roma, Complesso del Vittoriano, a cura di C. Beltramo Ceppi, Zevi e M. Meyer Skira, Milano, Skira, 2007, p. 230).

Il mio studio è corredato da pochissime opere, tutte lette e spiegate ricorrendo alla mistica ebraica: il hassidismo, la Cabbala; cose queste che mi aveva insegnato mio padre e delle quali mi ero convinta a tal punto da riuscire, allora, ad esprimerle. I dipinti di Chagall si potrebbero considerare un’autobiografia trascendentale che riflette proprio quanto l’amore per la Russia sia per lui più difficile, come se si sentisse da questa respinto, mentre il ghetto è invece tutto suo: tanto che quando tornerà in Russia, nel 1973, a Mosca e a Leningrado, si rifiuta di andare a Vitebsk, il suo paesino natale. Il primo è un elemento imprescindibile ma non essenziale, necessario ma non sufficiente rappresentando per lui “il pittoresco, il folclore”; resta a fior di pelle come illustrazione, mentre il ghetto è la sua vera ispirazione poetica, e – per dirla con Berenson – quella che genera i valori decorativi della sua pittura. La facoltà organizzativa dei misteri che si moltiplicano nelle sue tele non gli deriva dall’animo slavo.    
A questo punto si potrebbe forse avanzare un parallelo con Umberto Saba che, agli amici stupiti di certa sua capillare sapienza, avrebbe risposto: “Nessuna meraviglia. Ho tante generazioni di rabbini dietro le spalle!”. E chissà se Chagall si sarebbe sentito di dire: “Ho tante generazioni di cabbalisti dietro le spalle!“. Forse no, e sarebbe stato in buona fede, poiché è presumibile che non sapesse di saperlo. Sta di fatto che l’acquaforte della Gatta cambiata in donna (dalle illustrazioni delle Favole di La Fontaine, fig. 3) potrebbe essere ravvicinata a una poesia del poeta triestino, la cui ultima strofa comincia: «In una capra dal viso semita…»8.

Fig. 3 Marc Chagall, La gatta cambiata in donna, da Favole di Jean La Fontaine, Parigi 1952, tav. 25, acquaforte, mm. 304×300 (Chagall love and life, catalogo della mostra, Catania, Castello Ursino, a cura di B.Akkoyunly Ersðz e T. Bahou, Milano, Skira, 2015, p. 148).


Per un apolide come il nostro pittore, che esclamava ad ogni passo “sono ebreo e non ho patria”9, si potrebbe perfino ricorrere al mito, o archetipo, della Nekuia, cioè dello sgomentevole ma autobiografico viaggio nel fondo delle proprie origini ebraiche, in una specie di oscura e sempiterna regione delle Madri. Cosa che invece Jung riesuma, non so quanto a ragione, se si eccettua lo scenario di Parade che incantò soprattutto Proust, per spiegare psicologicamente l’arte di Picasso10. Ed è proprio sullo Spagnolo che si condensa, durante il periodo francese e con l’incontro di Apollinaire (1911-1914), tutto il disamore di Chagall per le varie tendenze astratte che invadono l’arte europea, “dove fiorivano la stilizzazione, l’estetismo, ogni sorta di stili mondani, di manierismi“, fino a fargli esclamare: “l’Europa comincia la guerra. Picasso finisce il Cubismo11.
È in fondo come se al pittore russo fosse rimasta addosso una ricettività sensoria alle figure, alle rappresentazioni, alle sfere del mondo, così come lo aveva ideato e popolato la Cabbala. La profonda comprensione del rapporto fra l’uomo e Dio, del quale egli si sente totalmente partecipe, rende possibili perfino gli importanti lavori sulla Bibbia conclusi nella seconda metà degli anni Cinquanta e preparatori del Messaggio biblico; e questo avviene proprio perché i connotati e le prescrizioni del suo temperamento si sono incontrati, nel momento esatto, con ciò che la civiltà della cultura, e quindi dell’arte, stava appunto chiedendo e che non sono paragonabili a nessuna illustrazione biblica di altro artista, come pienamente evidenzia la grandissima libertà stilistica da lui raggiunta rispetto alle rappresentazioni tradizionali. Consapevole di ciò, egli più volte ripeterà: “I profani sono i miei critici migliori. L’arte, mi sembra, è innanzitutto uno stato d’animo: la mia è forse un’arte insensata, un mercurio fiammeggiante, un’anima azzurra, zampillante sulle mie tele. Non voglio essere spiegato!”12.

NOTE
1) È ovvio ricordare che questi successi sono resi possibili soprattutto dal senso di liberazione che accompagna gli ebrei all’indomani della tragedia mondiale delle persecuzioni naziste (a proposito dei suoi congiunti esclama “avevo voglia di farli trasportare sulle mie tele per metterli al sicuro”: La mia vita, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 129). A quel tempo Chagall, nonostante la sua dichiarazione “non sono, e non sono mai stato religioso”, riversava sgomento e pietà in scene propriamente religiose, come Il Martire, del 1940, e La Crocefissione, del 1943: si veda L. Venturi, Marc Chagall. Étude biographique et critique, Genève, Skira, 1956, p. 45.
2) L’autobiografia, scritta nel 1922-1923, è apparsa per la prima volta nel 1931 a Parigi nella traduzione di Bella Chagall, con prefazione di André Salmon, Paris, Stock, Coll. Ateliers: di essa fu fatta una ristampa nel 1957. Tradotta in italiano da Fabio Mauri, è stata edita a Milano (si veda nota 1) e reca la seguente dedica: “ai miei genitori, a mia moglie, alla mia città”. Contemporanea è l’edizione tedesca ad opera di Verlag Gerd Hatje. E. Debenedetti, I miti di Chagall, Milano, Longanesi, 1962.
3) Per quanto sarebbero da citare anche le vetrate della Cappella dell’Unione di Pocantico Hills, a New York, del 1963-1966, dedicate ai Profeti, desidero menzionare ancora il Museo di Nizza, nelle cui tre vetrate troviamo la rappresentazione della Creazione narrata dalla Genesi, rinviando anche a P. Provoyeur. Marc Chagall, le Message Biblique, Paris, Maeght editeur, 1983. L’argomento dei Profeti coincide inoltre con il libro scritto da Giacomo Debenedetti (Milano, Mondadori, 1998), al cui insegnamento devo tutto ciò che I miti di Chagall contengono.
4) Marc Chagall, Le Cirque, 23 litografie a colori e quindici in bianco e nerotirate in 270 esemplari, Paris, Verve, 1967. Per le citazioni si rinvia a C. Beltramo Ceppi Zevi e M. Meyer (a cura di), Chagall delle meraviglie, catalogo della mostra (Roma, Complesso del Vittoriano, 8 marzo – 1 luglio 2007), Milano, Skira, 2007, p. 300.
5) In questo stesso Museo nell’estate del 1977 Chagall esporrà le pitture bibliche più recenti. Egli si era stabilito in Provenza fin dal 1949 e a Vence nel 1950, dove frequentava Henri Matisse e Pablo Picasso che abitavano rispettivamente a Nizza e a Vallauris.
6) G. Debenedetti, I Profeti, cit., p. 55: «Ecco che il Signore è per passare, ma innanzi al Signore verrà un vento forte e gagliardo tale da sciogliere le montagne e spaccare i sassi
non è nel vento il Signore
non è nel terremoto il Signore
non è nel fuoco il Signore
E dopo il fuoco si sentirà un profondo silenzio. Sublime incanto! Il Signore era nel silenzio». Su questo argomento si sofferma anche M. Shapiro, Le illustrazioni della Bibbia, in Chagall mediterraneo, catalogo della mostra (Pisa, Palazzo Blu), a cura di C. Beltramo Ceppi Zevi e M. Meyer, Firenze, Giunti, 2009, pp. 192-198, in part. 194-195. Nel 1931 Marc Chagall era stato invitato alla fondazione del Museo di Tel Aviv, e fu questa l’occasione di visitare i paesi da cui traeva ispirazione per illustrare la Bibbia; in Terra Santa tornò più volte fino all’ultima visita, del 1977.
7) Abitavo allora a Roma in via Nazionale 66. Quando una sera sono rientrata in casa con mio figlio, che aveva allora nove anni, tutte le porte erano aperte e il quadro non c’era più. Era il 9 giugno del 1983.
8) La poesia intitolata appunto La capra era volentieri recitata da Saba, spesso e a lungo ospite in casa nostra all’Aventino, in via Sant’Anselmo 32 (ora 56), dove allora abitavamo, così come anche la frase sulla sua ancestrale sapienza. Altri paralleli estremamente convincenti si potrebbero istituire fra Saba e Chagall, entrambi forse attratti dal complicato simbolismo delle pietre tombali dei cimiteri ebraici. Saba per esempio ci dipinge i suoi vecchi, in una Trieste avvicinabile alla Vitebsk di Chagall, nelle loro sepolture “simili tutti d’anima e di corpo“. In modo analogo il pittore ci descrive il cimitero di Vitebsk in occasione della morte della sorella o quello di Lyozno dove riposa il primo marito della nonna materna, “vicino al fiume, presso il recinto nero dove scorre l’acqua limacciosa. Sotto la collina, accanto ad altri «santi» morti tanto tempo fa(La mia vita, cit., pp. 62 e 12). È sottinteso lo stesso rispetto che il pittore nutriva per i propri congiunti che ritrae in un quadro dalla lunga gestazione (1935-1947) e di sua proprietà: L’apparizione della famiglia del pittore, 1935-1947 (I miti di Chagall, cit., fra le pagine 88 e 89), preceduto da queste parole: “Sarebbe più interessante dipingere le mie sorelle e mio fratello. Con quale amore verrei sedotto dall’armonia dei loro capelli, della loro pelle, con che prontezza salterei in loro, inebriando la mia tela e voi stessi dei miei colori di mille anni!” (La mia vita, cit., pag. 23). Bisogna a questo proposito anche ricordare come il devotissimo zio Israel avesse paura di tendergli la mano perché egli era pittore (ivi, cit., p. 25). E come Chagall non osasse ritrarlo nei propri dipinti: “Dio non lo permette. Peccato“, pur ricordando lo sconosciuto bisnonno che aveva dipinto le pitture nella sinagoga di Mohilev (ivi, p.153). La religione ebraica è infatti strettamente aniconica.
9) M. Chagall, La mia vita, cit., p. 103.
10) C.G. Jung, La realtà dell’anima, trad. it. di Paolo Santarcangeli, Roma, Astrolabio 1949, p. 173.
11) M. Chagall, La mia vita, cit., pp. 89 e 112. Si dà il caso che sia ricorso nel 2017 il centenario del viaggio in Italia di Pablo Picasso e Roma lo abbia celebrato con una mostra intitolata P. P. Tra Cubismo e Classicismo: 1915-1925, presso le Scuderie del Quirinale. Vi erano esposte soprattutto, al secondo piano, opere relative appunto al viaggio che egli compì  a Roma e a Napoli con Jean Cocteau e Igor Stravinskij al seguito della compagnia dei Balletti Russi del “mondano, grazioso e frizzante” Sergei Djagilev (così lo giudicava Chagall, in La mia vita, cit., p. 192),il cosiddetto “periodo mediterraneo” (anche questa è una strana coincidenza con il titolo della mostra di Chagall citata alla nota 6); qui figuravano fra l’altro i ritratti a inchiostro di Stravinskij e Léonide Massine, che curò la rappresentazione di Pulcinella con scene e costumi di Picasso. In concomitanza era esposto a Palazzo Barberini, nella sala di Pietro da Cortona, il sipario per il palcoscenico di Parade (metri 16,40×10,50), che in un certo senso confonde il teatro e il circo: Arlecchino contrasta con gli affaristi francesi e americani cubisti e vi è immortalata Olga Kokhlova accanto a una scimmia, probabile alter ego del pittore. Le antichità al fondo della scena erano ispirate dall’incontro con Roma, dove Picasso frequentava Balla e Depero. La prima rappresentazione si tenne a Parigi il 18 maggio 1917 al Théâtre du Châtelet.
12) Sono queste le frasi con le quali, in una breve comunicazione telefonica del febbraio 1963, commentò il mio studio quando lo ricevette: forse che in lui si nascondeva il timore che le sue immagini, realmente liriche, fossero decifrate in senso unico? Si veda anche La mia vita, cit., pp. 97, 107 e 111.

Elisa Debenedetti
dicembre 2023

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