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“Misesi in una feluca con alcune poche robe”: l’ultimo viaggio di Caravaggio

Francesca Curti

Scritto da:

Francesca Curti

Introduzione
Nell’estate del 1610 Caravaggio imbarcò su una feluca tutti i suoi averi e alcuni quadri e salpò da Napoli, dove aveva trascorso gli ultimi mesi ospite nel palazzo a Chiaia della marchesa Costanza Colonna, dopo la rocambolesca fuga da Malta e la tappa in Sicilia. Era diretto a Palo, da dove raggiunse poi Porto Ercole, trovandovi la morte. Le notizie sugli ultimi giorni di vita del pittore ci sono pervenute attraverso fonti letterarie e documentarie che concordano più o meno tutte nell’affermare che il viaggio era stato intrapreso con la speranza di ricevere presto la grazia papale e che la fine sopraggiunse per malattia forse conseguenza dei tragici eventi di cui era stato vittima. Due dei suoi biografi Giovanni Baglione e Giovan Pietro Bellori riferiscono, infatti, che una volta sbarcato fu incarcerato per poi essere rilasciato dopo qualche giorno e che l’episodio imprevisto determinò la perdita di alcuni dei suoi dipinti che rimasero sulla barca1 BAGLIONE 1642, p. 139; BELLORI 1672, p. 211 .
Informazioni più dettagliate sulla vicenda vengono fornite dal nunzio di Napoli, Deodato Gentile, nella prima di cinque lettere inviate tra il 29 luglio 1610 e il 26 agosto 1611 al cardinale Borghese, riguardanti la sorte riservata ai quadri che Caravaggio aveva portato con sé sulla feluca. Nella missiva il nunzio sostiene che la località dove avvennero lo sbarco e l’arresto fosse Palo, che l’artista riuscì a liberarsi per mezzo di una grossa cauzione e che solo tre dei dipinti spettanti a Borghese, due San Giovanni Battista e una Maddalena, si trovavano al sicuro nella casa della marchesa Colonna, dove i marinai della feluca li avevano riportati, dopo essersi allontanati in fretta dal porto. Afferma, inoltre, che Caravaggio, una volta scarcerato, avrebbe raggiunto forse a piedi Porto Ercole2 MACIOCE 2023, pp. 285-286, doc. 891 . In una successiva missiva di due giorni dopo, è costretto ad informare Borghese che i dipinti sono stati sequestrati dal priore di Capua, Vincenzo Carafa, per mano di alcuni “ministri regi”3 Ibidem, p. 286, doc. 891.  . Un’altra lettera scritta in data 19 agosto 1610 dal viceré di Napoli, conte di Lemos, all’auditore dello Stato dei Presidi aggiunge altre informazioni sugli avvenimenti immediatamente successivi al decesso del pittore. Rende noto che al momento della morte, egli aveva con sé un quadro raffigurante San Giovanni Battista e alcuni oggetti, di cui era stato eseguito lo spoglio su istanza del priore di Capua, il quale, però, aveva rinunciato ad ogni diritto sull’eredità, non essendo più Caravaggio cavaliere di Malta4 Ibidem, p. 287, doc. 894. .
Il racconto degli ultimi giorni del pittore così come riportato dai biografi e dalle testimonianze dell’epoca lascia aperti molti interrogativi a cui negli anni la critica ha cercato di dare risposte: rimangono poco chiari, infatti, le ragioni dell’arrivo nella località toscana, le modalità con cui vi giunse e il destino dei quadri della feluca. Di quest’ultimo argomento, le lettere di Deodato Gentile hanno consentito di seguire con certezza le vicende di un solo un dipinto, un San Giovanni, l’unico che il nunzio riuscì ad inviare al cardinale Borghese, identificato con il San Giovannino Borghese (Fig. 1).

Fig. 1 – Caravaggio, San Giovanni Battista, Roma, Galleria Borghese

Va precisato, però, che la tela romana è stata ritenuta da gran parte degli studiosi uno dei due San Giovanni che Gentile vide a casa della marchesa e lo stesso che il viceré, ignorando che i quadri erano tornati a Napoli, richiese all’auditore. La provenienza dalla residenza di Chiaia è stata negli ultimi tempi sostenuta anche per un altro quadro, una Maddalena, scoperta e attribuita da Mina Gregori a Caravaggio, essendo ad essa collegato un foglietto che la identifica come la tela dall’omonimo soggetto conservata presso la marchesa Colonna e destinata al cardinale Borghese5 CURTI 2020, VERDI 2020. .
Circa due anni fa, si è aggiunto un ritrovamento archivistico da parte di Giulia Cocconi che si è rivelato di assoluto valore per dipanare la matassa della narrazione dei fatti dell’estate del 1610. Si tratta di due procure con le quali Giovanni Francesco Tomassoni, dimorante a Parma, incaricò l’altro suo fratello Mario di stipulare per suo conto a Roma la pace sia con Onorio Longhi sia con Caravaggio6COCCONI 2021. .

L’Instrumentum pacis

Nelle due procure, pressocché identiche nella forma, rogate rispettivamente il 20 novembre 1609 e il 15 marzo 1610, Tomassoni si impegnava, a fare con entrambi gli artisti “bonam, veram et sinceram pace” che sarebbe stata suggellata anche dal bacio della pace. Di grande interesse è la notizia che le trattative di pace si sarebbero dovute svolgere “intuitu et contemplatione” di Mario Farnese per quanto riguardava l’architetto, e del cardinale Odoardo Farnese e di suo fratello, il duca di Parma Ranuccio Farnese, per quanto concerneva Merisi. I due atti rivelano dati importanti: non solo rendono nota l’implicazione nella risoluzione del contenzioso dei membri più influenti della famiglia Farnese, e nel caso di Caravaggio della figura del cardinale Odoardo, ma soprattutto permettono di stabilire che la riconciliazione tra i Tomassoni e il pittore era stata avviata pochi mesi prima la tragica fine dell’artista a Porto Ercole. Un’informazione quest’ultima che permette di aprire nuovi scenari riguardo alle procedure che Caravaggio mise in atto per giungere alla conclusione dell’accordo e che potrebbero forse spiegare il perché delle decisioni prese dall’artista nell’estate 1610. Infatti, all’epoca la punizione del reo, anche in caso di omicidio, non costituiva un esito scontato per le istituzioni, perché l’obiettivo perseguito dalla giustizia in questi casi era piuttosto il mantenimento dell’ordine sociale. La priorità era, cioè, evitare l’innesco della spirale di violenza vendicatoria della faida, attraverso il ricorso a strumenti a carattere privatistico, come la pace, in grado di sospendere l’intervento repressivo dello stato. Come esposto da Valerio Antichi, la pace, infatti, era un atto pubblico rogato da un notaio che sanciva “la sospensione del conflitto fra due o più soggetti”, prevedendo “uno specifico procedimento, implicante una serie di azioni rituali tra i contraenti” come darsi la mano e “scambiarsi l’osculum, cioè il bacio”, gesto necessario affinché “la comunità prendesse atto dell’avvenuta riappacificazione”7ANTICHI 2011, pp. 233- 234. (Figg. 2-3).

Fig. 3 – Paolo De Matteis, Madonna della pace, Benevento, Museo del Sannio
Fig. 2 – Paolo De Matteis, Madonna della pace, Benevento, Museo del Sannio (part.)


Inoltre, essa “costituiva una precondizione irrinunciabile”8BROGGIO 2021, p. 117. per poter richiedere la grazia sovrana. Spesso le trattative erano rese più complicate dalla condizione di contumacia del reo che si dava alla fuga, incorrendo così inevitabilmente nella condanna al bando che, in genere, era la forma di sanzione maggiormente usata e consisteva nell’esilio. Sebbene la pace fosse imprescindibile per richiedere la grazia, tuttavia da sola non dava la certezza della riammissione e del perdono del papa: esistevano altre condizioni a cui era necessario sottostare, come trascorrere in esilio un certo periodo di tempo, pagare una composizione a favore dei parenti della vittima e accettare la fideiussione.
Da quanto sin qui esposto, si può intuire quanto fosse importante per Caravaggio e per Longhi l’atto di procura di Giovanni Francesco Tomassoni. In quella primavera del 1610, quindi, gli sforzi compiuti, anche grazie ad appoggi potenti, per giungere alla soluzione pattizia e agevolare il rientro a Roma, stavano dando i risultati sperati.
Com’è noto, Caravaggio, subito dopo l’omicidio, fuggì nei feudi Colonna; risulta, infatti, contumace già dal 28 giugno 1606. Quasi un mese dopo, il tribunale ordinò l’affissione della convocazione del pittore e degli altri coinvolti nello scontro per la pronuncia della sentenza “declaratoria”, che dovette consistere per tutti nel bando dallo Stato pontificio, come sembra confermato, per quanto riguarda Caravaggio, da una lettera del 26 maggio 1607 dell’agente del duca di Modena, Fabio Masetti: “[gli scudi non] si son potuti recuperar per un homicidio comesso dal detto [Caravaggio], per il quale è stato bandito, ma perché il detto homicidio fu casuale e restò anch’egli malamente ferito, si tratta della sua remissione et si spera la gratia9 Ibidem, p. 249, doc. 791. Come ha giustamente chiarito, infatti, Sandro Corradini il bando colpì allo stesso modo tutte le persone nominate nel documento del 17 luglio 1606, data l’impossibilità da parte del Tribunale di accertare le responsabilità dei singoli, essendosi resi contumaci i partecipanti, cfr. Corradini 2015, p. 126. […]”.
Entrambe le parti, quindi, a poco più di un anno di distanza dall’omicidio, se si da credito alle parole dell’agente estense, stavano già cercando un accordo, anche se è chiaro che tale patto non si sarebbe potuto risolvere a breve, come auspicava Masetti perché, come accennato, sia Caravaggio che Tomassoni erano consapevoli che avrebbero dovuto trascorrere un periodo di esilio di qualche anno fuori dallo Stato pontificio e soprattutto che avrebbero dovuto essere in grado di sostenere le spese per la composizione e per la fideiussione. Allo stato attuale, non è possibile dire se la decisione di partire per Malta per entrare nell’ordine gerosolimitano sia stata dettata dalla volontà del pittore di cogliere l’occasione di occupare gli anni di esilio mettendosi al servizio di un’istituzione che avrebbe potuto procurargli prestigio e allo stesso tempo metterlo sotto una luce favorevole agli occhi del pontefice10Per approfondimenti sull’argomento si rimanda a SCIBERRAS 2019, pp. 74, 78, BERRA 2021, pp. 137-154. .
Ma è un dato di fatto che, all’inizio del 1610, quando erano trascorsi quasi quattro anni dopo l’omicidio, le parti in causa reputarono che si fossero create le condizioni favorevoli per risolvere definitivamente il contenzioso. L’atto di procura permette di sostenere che, a seguito di esso, già nella primavera dell’anno seguente non solo Mario Tomassoni fosse probabilmente in trattative con il procuratore nominato da Caravaggio (perché è logico pensare che anche il pittore da Napoli avesse eletto qualcuno a rappresentarlo), ma che della questione si stesse occupando personalmente il cardinale Odoardo Farnese. A questi, infatti, di concerto con il duca Ranuccio, spettava il compito (come riportato nell’atto), di supervisionare l’intera faccenda. Tuttavia il fatto che le negoziazioni fossero in atto, non consente di stabilire se fossero concluse quando Caravaggio nel luglio di quell’anno salpò alla volta di Palo. La mancanza di qualsiasi documento sul pittore inerente tale questione e il confronto con la situazione analoga in cui si trovava Onorio Longhi nello stesso periodo, inducono a ritenere possibile che non solo la grazia ma anche la pace non fossero ancora state firmate. Nel caso di Longhi questi inoltrò la supplica al papa, costituendosi presso le carceri di Tor di Nona, il 14 marzo 1611. Dal momento che la richiesta di grazia, come abbiamo visto, poteva essere inoltrata solo dopo la stipula del contratto di pace – che, infatti, l’oratore afferma di aver concluso con la parte avversa – si può essere abbastanza certi che pure tale contratto fosse stato stilato negli stessi giorni. Quindi nel caso di Longhi la definizione dell’accordo avvenne più di un anno dopo la procura redatta nel novembre 1609 da Giovanni Francesco in suo favore.

“Palo, luogo del signor cardinal Farnese”

Se ipotizziamo che anche per Merisi i tempi per la conclusione della pace fossero stati simili a quelli dell’amico architetto, è possibile che la partenza da Napoli abbia avuto a che fare con le contrattazioni per il negoziato pattizio. Come è stato appurato recentemente, grazie alla corrispondenza granducale, infatti, il 22 giugno 1610, pochi giorni prima l’arrivo di Caravaggio, a Palo era giunto il conte di Lemos, il quale, prima di proseguire per Napoli dove avrebbe assunto l’incarico di nuovo Viceré, aveva voluto incontrare il fratello Francisco, conte di Castro e ambasciatore spagnolo a Roma11 FABBRI 2010, pp. 64-65. . La notizia è riportata anche in un Avviso inviato da Roma alla corte di Urbino, nel quale il menante, nell’indicare Palo come la località dell’avvenuto ritrovo, afferma che esso apparteneva al cardinale Farnese:
“Et il nuovo viceré fu hiersera a Palo, luogo del signor cardinale Farnese, e questa mattina di 23 di giugno a Bracciano, regalato dal signor don Virginio et incontratovi dall’imbasciator suo fratello”12 BAV, Urb. Lat. 1078, c. 451r. .
Com’è noto e come è stato ribadito in diversi studi, in realtà all’epoca Palo faceva parte dello Stato di Bracciano, su cui governava Virginio Orsini13 CASTELLANO, CONFORTI 2001, pp. 19-23; FABBRI 2010, p. 60; MORI 2016, pp. 61-69; DI TOMASI 2022, pp. 13-26. ; tuttavia, alla luce di quanto emerso dall’atto di procura in merito al diretto coinvolgimento dei Farnese nella risoluzione degli accordi di pace, non è così facile derubricare tale informazione come una svista da parte dell’estensore dell’avviso.
La tenuta, di cui gli Orsini erano entrati in possesso nel Medioevo, era stata in effetti di proprietà dei Farnese: fu venduta nel 1573 al cardinale Alessandro Farnese da Paolo Giordano I. Alla morte del prelato, nel 1589, gli Orsini ne rientrarono in possesso.
Nonostante avessero perso Palo, i Farnese continuavano a vantare numerosi possedimenti nelle zone limitrofe ai territori dei nobili romani. Per mantenere la posizione dominante a nord di Roma, inoltre, il cardinale Odoardo era riuscito ad ottenere nel 1600 l’incarico di legato del Patrimonio di San Pietro, una delle quattro province in cui era diviso lo stato ecclesiastico, che comprendeva l’attuale provincia di Viterbo e il comprensorio di Civitavecchia.
Se, in quell’estate del 1610, il cardinale Farnese avesse vantato qualche diritto anche personale su Palo (magari un affitto temporaneo) allora non si può fare a meno di notare che quello sarebbe stato il luogo ideale dove sbarcare per un reo, colpito da bando, come Caravaggio, intenzionato a definire le ultime condizioni del contratto di pace (come, ad esempio, la composizione pecuniaria a favore dei fratelli di Tomassoni) su cui doveva vigilare proprio Odoardo Farnese. In questo senso, non è escluso che la presenza del pittore fosse richiesta anche per sancire l’ufficialità del patto, che doveva essere celebrata attraverso quei rituali di cui si è parlato in precedenza, come il bacio della pace, quest’ultimo infatti indicato nell’atto di procura come gesto necessario per una vera riconciliazione. Una conferma a quest’ipotesi potrebbe provenire dal confronto con il contratto di pace stipulato da Caravaggio con il notaio Mariano Pasqualoni il 27 agosto 1605, in cui effettivamente la pace oltre che dall’atto notarile venne sancita dalla stretta di mano e dal bacio tra i due contraenti.

L’uditore dei Presidi spagnoli e una nuova ipotesi sull’arresto di Caravaggio Una tale ricostruzione dei fatti trova tuttavia alcuni ostacoli di non poco conto, primo fra tutti la questione dell’incarceramento di Caravaggio appena sbarcato che non si concilierebbe con l’ipotesi di un incontro organizzato. Un aiuto in questo senso viene da un interessante articolo di Alessio Grasso, sfuggito alla critica caravaggesca perché di taglio archivistico, che, grazie a nuovi dati, presenta da una prospettiva inedita l’incidente di cui fu vittima il pittore appena sceso dalla feluca14 GRASSO 2005 .
Lo studio prende in esame il fondo delle Visitas de Italia dell’Archivio generale di Simancas. Nel corso del riordinamento delle carte, l’autore si è imbattuto nella figura di Diego Roca de Borja, uditore generale dal 1609 al 1610, che egli ha riconosciuto giustamente come il funzionario spagnolo destinatario della lettera inviata dal Viceré di Napoli. Grasso spiega che il conte di Lemos si era rivolto a lui in quanto principale rappresentante del viceré di Napoli “preposto all’amministrazione della giustizia sia in materia civile che penale su tutto il territorio dei Presidi”.

Borja, tuttavia, sembra che non svolgesse bene il suo lavoro perché al termine del suo mandato fu messo sotto inchiesta con l’accusa di aver perpetrato numerosi abusi di potere, tra i quali quello che ricorre più spesso, e che è particolarmente interessante ai fini delle vicende caravaggesche, riguarda l’abitudine di eseguire condanne sommarie “per poi estorcere ai condannati la cauzione per la loro scarcerazione”. Particolare attenzione merita il fatto che nell’inchiesta fu coinvolto anche il luogotenente di Porto Ercole, Juan Thomás de Sabio, uno dei suoi più stretti collaboratori. Sulla base di queste notizie Grasso ritiene possibile che l’incarcerazione del pittore non fosse avvenuta a Palo, come riferito dal nunzio di Napoli, ma a Porto Ercole, e che rientrasse nel sistema di soprusi messo in atto da parte delle autorità del luogo, in cui per sua disgrazia incappò anche Caravaggio. Tale ipotesi permetterebbe non solo di sostenere quanto finora proposto in merito alle motivazioni dello sbarco a Palo, ma chiarirebbe alcune delle molte incognite riguardanti gli ultimi giorni di vita dell’artista. Se si accetta, infatti, che l’arresto avvenne nei Presìdi spagnoli, si deve anche accettare il fatto che il poco comprensibile arrivo del pittore a Porto Ercole fosse una tappa programmata del suo viaggio. Ne consegue che il problematico tragitto che – secondo Deodato Gentile – Caravaggio avrebbe percorso a piedi per giungere dall’approdo laziale a Porto Ercole, dopo essere stato liberato, sulla cui reale fattibilità sono stati espressi da sempre molti dubbi, non sarebbe mai avvenuto, poiché Caravaggio una volta presi gli accordi con i Tomassoni e Farnese avrebbe poi proseguito per i Presìdi spagnoli, con l’intenzione probabilmente di attendere in qualche località di quelle zone la stipula formale davanti al notaio dell’instrumentum pacis (che, non dimentichiamolo, nel caso di Longhi fu probabilmente redatta nel marzo 1611, nonostante Giovanni Francesco Tomassoni avesse stilato la procura che lo riguardava quattro mesi prima quella nei confronti di Caravaggio).
Acquisterebbe, inoltre, un senso logico più stringente anche il racconto degli ultimi momenti di vita del pittore: se, infatti, Caravaggio fu tratto in arresto dalla guarnigione spagnola di stanza a Porto Ercole (la “guardia spagnola” di cui parla Bellori?), allora si può immaginare che fu in quel porto che il pittore sbarcò anche quella parte del suo bagaglio, che includeva il San Giovanni Battista, poi richiesta dal Viceré, mentre non avrebbe fatto in tempo a prendere i restanti beni rimasti sulla feluca, la quale “in quel romore tiratasi in alto mare se ne ritornò a Napoli”.
A questo proposito, è bene chiarire un equivoco riguardante le motivazioni che spinsero il Viceré a scrivere la lettera all’auditore perché tale incomprensione ha generato confusione riguardo i San Giovanni imbarcati da Caravaggio sulla feluca. Si ritiene che il conte di Lemos, venuto a conoscenza della morte del pittore, avesse tentato anch’egli di contendersi con il priore di Capua e con il cardinale Borghese i quadri lasciati dall’artista. In realtà, come si intuisce chiaramente dalla lettera del 31 luglio 1610 scritta da Gentile, è molto probabile che egli si mosse su esplicita richiesta di Scipione15 Non si comprendono, infatti, chiaramente i motivi per cui sia Marini che Pacelli ritengano che le notizie di cui era in possesso il viceré in merito alla vicenda dell’eredità di Caravaggio gli fossero giunte per vie traverse, o a seguito delle rimostranze del nunzio (MARINI 2001, p. 103) o perché riferitegli dall’uditore stesso (PACELLI 1994, p. 134). Forse si riteneva che all’epoca non fosse possibile recapitare ben tre lettere (quella del nunzio del 31 luglio a Roma, quella eventuale di Borghese al viceré a Napoli e quella del conte di Lemos ai Presidi spagnoli del 19 agosto) nell’arco di circa venti giorni. Invece, la corrispondenza almeno per personaggi di così alto livello si svolgeva con una certa celerità: infatti, come si evince dalla prima lettera del 29 luglio, il nunzio aveva ricevuto la missiva da parte di Borghese solo cinque giorni prima, il 25 luglio (MACIOCE 2023, p. 285, doc. 891). .

Il nunzio, infatti, avendo appreso che i quadri erano stati confiscati, consigliò al prelato di “scrivere una lettera all’ecc.mo signor viceré […] acciò che con l’autorità di S. Ecc.a si possino più facilmente recuperare”. Borghese seguì le indicazioni di Gentile, e il viceré si offrì di aiutarlo. Si informò se il priore di Capua potesse vantare pretese sull’eredità e apprese dal tribunale – perché, come vedremo, i beni del pittore erano stati confiscati dall’autorità giudiziaria – che non ne aveva diritto; si fece stilare un inventario con i beni che erano rimasti a Porto Ercole, e inviò la lettera, con l’acclusa lista. Se ragioniamo sul fatto che il conte di Lemos era al corrente che il tribunale tratteneva i due San Giovanni e una Maddalena,e agiva per conto del cardinale appare poco probabile che possa essersi confuso chiedendo la restituzione di un quadro che era già Napoli. Ne consegue che il San Giovanni rimasto in Toscana non possa essere uno dei due dipinti omonimi che erano in casa della marchesa, ma debba essere un altro dipinto.
Non appena Caravaggio riuscì a liberarsi dopo qualche giorno “con un sborso grosso di denari”, sebbene in condizioni di salute precarie, si diresse sul litorale toscano alla disperata ricerca della barca che, come riportato da Gentile, conteneva i restanti tre dipinti, altri due San Giovanni e la Maddalena. In base a tale ricostruzione, si spiegherebbe più facilmente la presenza a Porto Ercole di quei beni dell’artista, tra cui il quadro, in possesso dell’uditore, che, quindi, sarebbero giunti insieme a Caravaggio via mare e non trasportati a piedi dal pittore per più di cento chilometri.
Infine, l’ipotesi di un arresto presso un presidio militare spagnolo ben organizzato tornerebbe di più rispetto a quello presso il porto laziale, la cui fortezza, secondo un documento del 1610, era munita di una guarnigione composta di soli tre soldati16 CASTELLANO, CONFORTI 2001, p. 44. . Infatti, all’epoca la sua funzione militare era divenuta marginale a vantaggio di una destinazione ad uso residenziale, essendo quel litorale difeso dalle flotte pontificie e godendo anche della protezione degli spagnoli, che ne usufruivano liberamente.

Sul destino dei quadri della feluca

Come riferito da Deodato Gentile, la feluca riportò il suo carico a casa della marchesa Costanza Colonna a Chiaia, da dove era partito qualche settimana prima il pittore. Il nunzio, il 29 luglio 1610, informa il cardinale Borghese di essere andato personalmente a visionare i dipinti e di non averne trovato che i tre citati. Neanche due giorni dopo, Gentile è costretto a scrivere di nuovo a Scipione che i quadri sono stati “sequestrati dal signor prior di Capoa in mano di alcuni ministri regii […] pretendendo il detto priore che il pittor Caravaggio fossi frate servente della sua religione e che perciò tochi a lui di farne spoglio”. Queste poche frasi costituiscono la chiave per indagare le vicende dei dipinti (e degli altri averi di proprietà del pittore) successive alla loro requisizione dal palazzo della marchesa, perché chiariscono un fatto fondamentale: le opere furono sequestrate e finirono nelle “mani di alcuni ministri regi”, cioè dei magistrati di qualche tribunale napoletano su indicazione del priore di Capua, che riteneva spettassero all’ordine dei Cavalieri di Malta i beni del pittore. Ciò significa che fu Carafa a mettere in moto la macchina della giustizia attraverso una denuncia formale alle autorità competenti affinché si occupassero dell’eredità di Caravaggio. E si premurò di aprire il contenzioso non solo a Napoli, ma anche a Porto Ercole, come, infatti, riferisce il viceré nella citata lettera all’uditore dei Presidi.
Purtroppo però anche per il conte di Lemos le possibilità di forzare la mano per la restituzione dei quadri erano da considerarsi molto scarse, sia perché essi erano sottoposti a procedimenti giudiziari riguardanti un’eredità contesa, per di più gravata da debiti che bisognava saldare (e i quadri rappresentavano senz’altro gli oggetti di maggior valore), sia perché a causa di complessi equilibri di potere tra monarchia spagnola e funzionari locali del Regno di Napoli, l’autorità che egli poteva vantare sulla magistratura napoletana era tutt’altro che pervasiva17 Sulla questione si veda ROVITO 1982; CONIGLIO 1955. . Non altrettanto difficile appariva invece la situazione sul versante toscano, perché in quel caso lo Stato dei Presìdi, in quanto roccaforte militare della monarchia spagnola, dipendeva direttamente dal Viceré. Si può ipotizzare che per tali motivi il conte di Lemos riferì a Scipione che avrebbe potuto recuperare solo l’unico quadro che, insieme ad altri beni di Caravaggio, era rimasto a Porto Ercole, il San Giovanni Battista. Per gli altri tre quadri, invece, potrebbe avergli consigliato di rinunciarvi. Ed è forse per questo che nelle lettere successive di Deodato Gentile delle tele ritornate con la feluca non si parla più, mentre dalla missiva del 10 dicembre 1610, si apprende che il San Giovanni da Porto Ercole era effettivamente giunto presso il conte di Lemos che lo aveva fatto anche copiare. Nonostante l’opera fosse nelle mani del Viceré e, quindi, potesse trovarsi più facilmente nella disponibilità del nunzio, rimaneva comunque il problema del risarcimento agli eredi e ai creditori che avrebbero potuto vantare delle pretese su di essa, e allora viene da chiedersi come mai Gentile avesse garantito ugualmente a Borghese l’invio del quadro quanto prima, non mantenendo però la promessa. La risposta si trova in un documento rivenuto da Edoardo Nappi nel 2009, sinora passato sotto silenzio, che riguarda un mandato di pagamento di cinque ducati eseguito in data 19 aprile 1611 dal nunzio di Napoli su mandato del Tribunale della Vicaria a favore di Fabrizio Santafede per la stima da questi eseguita di un quadro raffigurante San Giovanni. Il denaro faceva parte di un deposito di trecento ducati versato qualche tempo prima, il 9 novembre 1610, da Gentile per una causa afferente a quel tribunale, che era in discussione presso la banca Ventriglia, cioè presso l’ufficio del mastrodatti Ventriglia, dove viene infatti spedito il mandato:
[19 agosto 1611] A Diodato Gentile, monsignor Nunzio di Napoli D. 5. E per lui a Fabritio Santafede in virtù di mandato della Vicaria et sono del deposito di D. 300 per detto fatto a 9 de novembre passato per la causa in essa contenuta. Quali D. 5 in virtù di detto mandato spedito in banca di Ventriglia si sono liberati al detto Fabritio per lo prezzo del quadro di San Giovanni et sono per lo apprezzo per esso fatto et accesso in apprezar lo quadro18 NAPPI 2007/2008, p. 384. .

Non si ritiene ci possano essere dubbi sul fatto che il San Giovanni citato nel documento sia quello che il Viceré fece pervenire da Porto Ercole. Ora, grazie al mandato di pagamento, possiamo anche capire perché Gentile avesse rassicurato il cardinale che stava per inviare il dipinto: avendo rilasciato la somma di trecento ducati al tribunale credeva di aver saldato qualunque pendenza nei confronti degli eredi e dei creditori, e di poter, quindi, avere la disponibilità dell’opera. Ma quando si era recato dal Viceré per prendere il quadro, una volta terminata la copia, questi lo aveva informato del fatto che non era ancora stato eletto un curatore, figura indispensabile per il rilascio del quadro. Al curatore, infatti, spettava il compito di amministrare e conservare il patrimonio nell’interesse degli eredi, e poteva attuare le altre azioni di sua competenza come vendere i beni mobili, pagare i debiti lasciati dal defunto (che, nel caso di Caravaggio, pare fossero consistenti) e quindi autorizzare anche il dissequestro dell’opera.

Ma il documento bancario è prezioso anche perché permette di confermare le parole di Gentile in merito all’apertura di una procedura giudiziaria sull’eredità di Caravaggio, svelandoci il tribunale presso cui essa si stava svolgendo, la Gran Corte della Vicaria, e la “banca” del mastrodatti, Ventriglia, che la stava seguendo. La Gran Corte era, infatti, un tribunale civile competente in materia di successione ereditaria. Ad esso si rivolgeva chi riteneva di avere diritto ad entrare in possesso dei beni di un defunto, che aveva avuto come ultimo domicilio la città di Napoli, tramite un’istanza, in cui si chiedeva che venisse introdotto il decreto detto di preambolo, affinché fosse dichiarato erede universale. Prima di decidere in merito all’emanazione del decreto, si effettuavano delle indagini19 ZENI s.d., pp. 1-25. .
Questa è la procedura che deve aver messo in atto il priore di Capua per adire all’eredità di Caravaggio, aprendo così il fascicolo processuale e dando facoltà ai giudici di prelevare da casa della marchesa Colonna i beni del pittore, in attesa che venissero accertati i suoi diritti sull’eredità. Tuttavia le verifiche non permisero di emanare il decreto a suo favore, perché da esse emerse che Caravaggio non era più cavaliere di Malta, motivo per il quale si risolse a rinunciare.
Si è riusciti ad ottenere qualche informazione interessante sugli ambienti della Vicaria che potrebbe riguardare la sorte degli altre tre quadri. E’ stato possibile individuare i nomi dei giudici che erano allora in carica: Giovanni Francesco Macedonio, Andrea Sotomaior Medrano, Alfonso Brancaccio, Giovanni Luigi Catalano di Aversa, Alfonso Vargas, Marcello Lanfranco e Flaminio di Costanzo20 TOPPI 1666, III, p. 26. .

Questi personaggi sono probabilmente da identificarsi con i “ministri regi” che eseguirono il sequestro a casa della marchesa, sebbene vada tenuto presente che spesso – avendo i giudici un mandato biennale e non riuscendo a seguire tutte le cause – le funzioni giudiziarie erano svolte dai mastrodatti, che operavano in loro vece, motivo per il quale non si può escludere che della questione si sia interessato direttamente Ventriglia, di cui non si è riusciti ad accertare con sicurezza l’identità. È degna, tuttavia, di attenzione la notizia che un Flavio Ventriglia, giureconsulto napoletano e letterato, fu uno dei fondatori nel 1611 dell’Accademia degli Oziosi, insieme a personalità quali Giovanni Battista Manso, il principe di Stigliano, Luigi Carafa, e il poeta Giovanni Battista Marino.

Riveste, infine, un indubbio interesse il fatto che un altro dei mastrodatti impiegati a quel tempo presso il Tribunale della Vicaria fosse Giovanni Andrea Canali, al quale, nel febbraio del 1609, era stato confermato l’ufficio della mastrodattia civile che mantenne almeno fino al 1614. Questi è probabilmente da ritenersi lo stesso personaggio che svolgeva all’epoca anche l’attività di mercante di seta e che ho ipotizzato di recente potesse essere un antenato di quel suo omonimo, Giovanni Andrea Canali, anch’egli mercante di seta, che nel Settecento era proprietario a Perugia della Maddalena in estasi, attribuita a Caravaggio da Mina Gregori.

Francesca Curti

BIBLIOGRAFIA

ANTICHI 2011
V. Antichi, Giustizia consuetudinaria e giustizia d’apparato nello Stato pontificio: la ruptura pacis (1550-1600), in Stringere la pace: teorie e pratiche della conciliazione nell’Europa moderna (secoli XV-XVIII) – Studi e ricerche, 24 (Università degli studi Roma tre, Dipartimento di studi storici, geografici e antropologici), a cura di P. Brogio e M.P. Paoli, Roma 2011, pp. 229-275

BAGLIONE 1642
G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fin ai tempi di papa Urbano VIII nel 1642, Roma 1642

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G.P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Roma 1672

BERRA 2021
G. Berra, Il viaggio della marchesa di Caravaggio Costanza Colonna da Genova a Napoli a bordo di una galera maltese: lettere inedite, Heidelberg 2021

BROGGI0 2021
P. Broggio, Governare l’odio. Pace e giustizia criminale nell’Italia moderna (secoli XVI-XVII), Roma 2021

CASTELLANO, CONFORTI 2001
F. Castellano, A.M. Conforti, Da Alsium a Ladispoli, Ladispoli 2001

COCCONI 2021
G. Cocconi, Giulia, Caravaggio in exile: new documents, in “The Burlington magazine”, 163, 1414 (2021), pp. 34-39

CORRADINI 2015
S. Corradini, L’incidente della Pallacorda: un omicidio “pretereintenzionale”: nuova luce sulla rissa tra Caravaggio e Ranuccio Tomassoni, in Una vita per la storia dell’arte. Scritti in memoria di Maurizio Marini, a cura di P. Di Loreto, pp. 123-132

CONIGLIO 1955
Coniglio, Il viceregno di Napoli nel XVII secolo. Notizie sulla vita commerciale e finanziaria secondo nuove ricerche negli archivi italiani e spagnoli, Roma 1955

CURTI 2021
F. Curti, Sulla via della seta: prime ricerche sulla “Maddalena Gregori”, in Caravaggio a Napoli, a cura di M.C. Terzaghi (“Studi di storia dell’arte. Speciali”), pp. 125-138

DI TOMASI 2022
R. Di Tomasi, Gli ultimi giorni di Caravaggio da Napoli a Palo, Roma 2022

FABBRI 2010
C. Fabbri, L’anello mancante. Nuove ipotesi sulle circostanze di morte del Caravaggio, in Caravaggio e caravaggeschi a Firenze, catalogo della mostra (Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Galleria degli Uffizi, 27 maggio – 17 ottobre 2010) a cura di G. Papi, pp. 50-67

GRASSO 2005
A. Grasso, I presidios toscani nel fondo Visitas de Italia dell’Archivio Generale di Simancas (1606-1612), in “Nuovi annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari”, anno XIX (2005) pp. 155-184

MACIOCE 2023
S. Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio: documenti, fonti e inventari 1513-1848, Roma 2023

MARINI 2001
M. Marini, Caravaggio “pictor praestantissimus”. L’iter artistico completo di uno dei massimi rivoluzionari dell’arte di tutti i tempi, Roma 2001

MORI 2016
E. Mori, L’Archivio Orsini. La famiglia, la storia, l’inventario, Roma 2016

NAPPI 2007/2008
E. Nappi, Documenti inediti per la storia dell’arte a Napoli per i secoli XVI – XVII dalle scritture dell’Archivio di Stato Fondo Banchieri Antichi (A. S. N. B. A.) e dell’Archivio Storico dell’Istituto Banco di Napoli – Fondazione (A. S. B. N.), in “Quaderni dell’Archivio Storico”, 2007/2008, pp. 361-401

PACELLI 1994
V. Pacelli, L’ultimo Caravaggio: dalla Maddalena a mezza figura ai due san Giovanni (1606-1610), Todi 1994

ROVITO 1982
P.L. Rovito, La Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, Napoli 1982

TOPPI 1666
N. Toppi, De origine omnium tribunalium nunc in Castro Capuano, 3 voll., Napoli 1666

VERDI 2021
O. Verdi, Il foglio manoscritto che accompagna il dipinto della “Maddalena Gregori”: analisi e vicende, in Caravaggio a Napoli, a cura di M.C. Terzaghi (“Studi di storia dell’arte. Speciali”), pp. 139-150 

ZENI s.d.
A. Zeni, Gran Corte della Vicaria. Processetti dei decreti di preambolo (1° serie). Inventario sommario cronologico con indice alfabetico, inventario 724, Sala studio Archivio di Stato di Napoli, s.d.


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