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Cherubino Alberti e Michelangelo Merisi: due delitti e una salvezza

Sofya Utvenko

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Sofya Utvenko

La vicenda giudiziaria del pittore Cherubino Alberti, accusato, il 7 febbraio 1598, di aver ucciso tal Orazio del Bene, non altrimenti noto, rappresenta un caso studio ben noto nella biografia del Biturgense. Nel presente testo, a partire da una disamina delle fonti, si propongono alcuni documenti inediti in grado di chiarire ulteriormente la vicenda.

Una premessa sembra, però, obbligatoria. Parlando di artisti assassini è difficile evitare il confronto tra Cherubino Alberti e Michelangelo Merisi da Caravaggio. Due pittori, a prima vista agli antipodi ma accumunati dall’essere incorsi in simili disavventure giudiziarie con sviluppi, a tutti gli effetti, differenti. Nel 1598 erano già passati due anni da quando i due fratelli Alberti, Giovanni e Cherubino[1], avevano iniziato a lavorare nel Palazzo Apostolico, prendendo parte al cantiere promosso da Clemente VIII per la decorazione della Sala Clementina (Fig. 1) quando, all’inizio di febbraio, Cherubino uccise Orazio del Bene[2]. L’incidente fu un autentico spartiacque nella vita dell’artista.

Fig. 1. Giovanni e Cherubino Alberti, Sala Clementina, 1596-1600, Vaticano,
Palazzo Apostolico

Tra le prime fonti a darci questa notizia è Karel Van Mander che cita appena l’episodio: «Questo <Cherubino> aveva commesso un’omicidio ed era stato liberato in considerazione dell’arte del fratello <Giovanni>»[3].

Tra i fogli sciolti, provenienti prevalentemente dal Tribunale del governatore di Roma e contenuti all’interno della cosiddetta Miscellanea artisti, raccolta e pubblicata in varie edizioni da Antonino Bertolotti tra gli anni Sessanta e Novanta dell’Ottocento, è conservata la supplica rivolta da Giovanni Alberti (1558-1601) al Cardinale Silvio Antoniano (1548-1603), per intercedere presso il Papa o il cardinale Aldobrandini al fine di concedere a Cherubino, condannato in contumacia, un salvacondotto di sei mesi per continuare a lavorare a «Palazzo».

La supplica, finalmente trasmessa al papa dal Governatore di Roma, probabilmente Ferdinando Taverna, pur essendo priva di data cronica, presenta nondimeno, un convincente termine post quem, individuabile nel 3 marzo del 1599 (la data dell’elevazione alla porpora di Silvio Antoniano).

Il 15 ottobre del 1599 Cherubino scrisse una lettera a Cristina di Lorena, dicendo che stava lavorando nel Palazzo, cosa che potrebbe testimoniare come il salvacondotto gli fosse stato concesso già qualche tempo prima. Mentre i pagamenti per i lavori nella Sala Clementina, intestati a Cherubino, sono registrati a partire dal 15 novembre del 1599[4].

Un elemento interessante è costituito da un regesto del «fogliolino annesso del Governatore, pro memoria», contenente i dettagli del delitto commesso e citato dal Bertolotti nella pubblicazione del 1875[5].

Dalla breve nota si evince che Cherubino (Fig.2) uccise Orazio del Bene il 7 febbraio del 1598. Bertolotti, a sua volta, fornisce maggiori dettagli e una data leggermente arretrata del reato: «Cherubino Alberti è stato condannato capitalmente in contumacia perché il 3 febbraio del 1598 per difendere una lavandaia sua vicina, maltrattata da certo Orazio del Bene, ammazzò questo con due coltellate». Considerando che si trattava della vicina di casa, possiamo ipotizzare che la rissa e il successivo omicidio avvenissero nella stessa parrocchia di San Marco; rimane il dubbio sulla data esatta dell’omicidio, il 3 oppure il 7 febbraio.

Fig. 2. Cherubino Alberti, Autoritratto, ca. 1596-1602. Roma, Istituto Centrale per la Grafica.

Il contenuto della medesima memoria e della supplica era senz’altro noto ancora a Kristina Herrmann Fiore che nel 1983 aggiunse il dettaglio del nome della lavandaia: Madonna Maddalena[6].

Un’ulteriore attività di ricerca nel fondo del Tribunale criminale del governatore ha rilevato nella serie «Registrazioni d’atti», l’annotazione del 12 marzo 1598 di una sentenza dell’11 marzo, «pro fisco contra Cherubinum Berti pictorem habitantem in platea Sancti Marci», di cui purtroppo non è riportato il contenuto, che potrebbe essere un termine cronologico ulteriore circa la conclusione del processo.

Non sono noti gli eventi che seguirono il processo, tuttavia, a dicembre del 1598 Cherubino Alberti si trovava di nuovo a Roma, nella casa presso San Marco. L’ultima iscrizione nel diario di Alberto Alberti, padre dell’artista, è fatta proprio dalla mano di Cherubino: «il mio carissimo e honorando padre piacque al onipotente Iddio tirarlo a sé il giorno di Ognisanti cioè la notte a hora 6 del 1598, morse in Roma».

Un punto di partenza per gli ulteriori approfondimenti è stato il rinvenimento dell’atto di pace, registrato tra Cherubino Alberti e Cleria del Bene, sorella del defunto Orazio del Bene[7]. Il documento fu registrato il 2 marzo del 1600 dal notaio capitolino Giovanni Battista Ottaviani. Poco più di un mese dopo a Cherubino Alberti fu concessa la grazia, nota grazie agli studi di Herrmann Fiore. Pur non fornendo ulteriori dettagli, infatti, la studiosa ha riferito di aver reperito un «atto di grazia <a Cherubino Alberti> per aver ucciso Orazio del Bene», datato 15 aprile 1600, con la restituzione di tutti i beni confiscati. La supplica del fratello Giovanni, a sua volta, indica il medesimo anno della supposta grazia, cosa che potrebbe avvalorare l’ipotesi che il 1600 corrisponda effettivamente alla chiusura del fascicolo processuale.

L’artista non assisté al rogito, avendo delegato al notaio Ottaviani di rappresentarlo. Con il citato documento tra le due parti fu sancita la pace, che prevedeva il perdono permanente dell’omicidio commesso nel 1598 e di qualsiasi altra incombenza od offesa, provocate da Cherubino a Orazio del Bene o a sua sorella. Cherubino Alberti venne esonerato da qualsiasi castigo e, da parte sua, promise di non provocare nessun danno, diretto o indiretto, alla signora Cleria, pena il pagamento di 500 scudi.

Si può ipotizzare che l’atto di pace sia stato stipulato alla scadenza del salvacondotto, concesso verosimilmente attorno al 2 settembre del 1599, data che appare convincente, in quanto a ottobre del 1599 Cherubino era già tornato al Palazzo Apostolico.

Il documento fornisce alcuni indizi per svelare la personalità della vittima, Orazio del Bene, rimasto, sinora, completamente sconosciuto. Dalle prime righe, infatti, è stato possibile ricostruire alcuni dati sulla famiglia del Bene; figlio di Stefano del Bene, Orazio aveva una sorella di nome Cleria, che al momento dell’accordo con Cherubino Alberti aveva già perso non solo il fratello, ma anche il marito Bernardino.

Sempre nel documento, rogato presso l’abitazione della signora Cleria, si legge che la sua dimora si trovava nel rione Monti «prope Ill.bus dd. de comitibus», ovvero vicino agli illustri signori Conti. Un altro indizio è «retro turrem» depennato, che potrebbe indicare la Tor de’ Conti. Dalla consultazione delle piante di Roma settecentesca (Fig. 3), si evince la presenza di un palazzo Conti, situato all’altezza del foro di Traiano nel quartiere Alessandrino e poco distante dalla menzionata Tor de’ Conti.

Fig. 3. Frammento della pianta di Roma, da G. B. Nolli, Nuova pianta di Roma data in luce da Giambattista Nolli l’anno MDCCXLVIII, Roma 1748.

Delimitata la zona di ricerca, sembrerebbe che la famiglia del Bene fosse parrocchiana della chiesa di S. Adriano al Foro o di Ss. Quirico e Giulitta. Purtroppo, gli stati delle anime delle sopradette parrocchie contengono soltanto documentazione successiva al periodo di interesse ma, tra le registrazioni dei matrimoni della chiesa dei Ss. Quirico e Giulitta, è stato possibile rinvenire la registrazione del matrimonio tra «Ill. d. Anna de comitibus» con «Ill. d. Flaminius della Anguillara». È verosimile che anche i del Bene appartenessero alla stessa parrocchia, situata proprio alle spalle dell’imponente Tor de’ Conti.

Ulteriori dati si traggono dall’inventario di tutti i beni del defunto, ereditati dalla sorella Cleria, che il notaio Ottaviani stilò ad aprile del 1598[8]. Dall’inventario in questione, composto sulla richiesta dell’unica erede, Cleria del Bene, si evince che la vittima di Cherubino era romano, di mestiere faceva macellaio e possedeva dei terreni fuori Porta Maggiore e nella zona, chiamata Malabarba, oltre la porta di San Lorenzo. In più, era di sua proprietà «un fenile alla suburra», adiacente alla proprietà della sorella stessa. Per il resto tra i suoi beni vi erano indumenti, mobili ma anche alcuni oggetti preziosi come «un agnus dei d’oro» e anelli d’oro e, in particolare delle armi, ovvero «un archibusio novo a rota» e «una storta col suo fodero».

Rimane, tuttavia, oscura la natura dei rapporti fra il macellaio, la lavandaia e il pittore attivo presso la corte pontificia.

Tutta la questione riporta alla mente il caso, entrata ormai nell’immaginario collettivo, di un pittore noto per la sua opera sublime, quanto per le sue travagliate vicende giudiziarie, culminate con l’omicidio di Ranuccio Tomassoni del 1606: Michelangelo Merisi.

Quanto mai lontani, per provenienza, formazione e stile, le biografie di Alberti e di Caravaggio sembrerebbero denunciare numerosi punti di contatto, seppur con esiti radicalmente diversi.

Giovanni Baglione non risparmiava critiche ad entrambi. Affatto privo di vizi e passioni, melanconico, a volte collerico – questa è l’immagine di Cherubino proposta dal Baglione[9].

Già all’inizio del soggiorno romano del Merisi si incrociano le vie dei due artisti, a partire dal primo documento che testimonia la presenza del giovane lombardo a Roma, la famosa Lista delle quarantore, tra gli offitiali è presente Alberti in qualità di rettore[10].

Anche il Borgheggiano ebbe una vicenda giudiziaria precedente al delitto; come successe più volte a Caravaggio, fu, infatti, arrestato per porto d’armi abusivo. Nel diario di Alberto Alberti si legge che il 22 agosto del 1581 Cherubino fu arrestato a Città di Castello[11]; il padre, che in qualche misura fu partecipe in prima persona nella vicenda, sembra una fonte attendibile e se non altro univoca, non essendo al momento accessibile la documentazione originale del Fondo giudiziario della Città di Castello.

Il 19 luglio del 1605 Caravaggio fu arrestato per aver danneggiato la porta e la facciata della casa di Laura e Isabella della Vecchia[12]. Ma il giorno dopo, il 20 luglio del 1605, uscì di prigione grazie alla lettera di garanzia e sotto la pena di 100 scudi. Fra i mallevadori che firmarono la lettera per la liberazione dell’artista, incarcerato in Tor di Nona, fu anche «Cherubino Alberto da Borgo S. Sepolcro pittore al Popolo».

Entrambi gli artisti furono coinvolti nelle due risse già indicate e tutto si svolse in un contesto di festività romane: il Carnevale per Cherubino e le celebrazioni del primo anno del pontificato di Paolo V Borghese per Caravaggio. Nelle vite di entrambi ebbero un ruolo non secondario due donne, entrambe di nome Maddalena.

Analogamente a quanto accadde per Alberti anche nella vita tormentata di Caravaggio si presagisce una possibile svolta dopo la verosimile stipula dell’accordo di pace con il fratello dell’ucciso Ranuccio Tomassoni. Dai documenti pubblicati recentemente da Giulia Cocconi si evince, infatti, che a marzo del 1610 Giovan Francesco Tomassoni, in esilio a Parma, autorizzò il fratello Mario, che si trovava a Roma, a fare la pace con Michelangelo Merisi[13]. È molto probabile che la pace sia stata rogata in quanto pochi mesi dopo, a luglio dello stesso anno, a seguito del diffondersi della notizia del perdono da parte di Paolo V, Caravaggio intraprese il suo viaggio di ritorno.

Viene però da chiedersi la ragione per cui dopo due omicidi così simili, uno dei due pittori fu costretto ad un esilio di quattro anni mentre l’altro, solo un anno dopo, si ritrovò di nuovo a dipingere nel Palazzo Apostolico, quasi che il delitto non abbia gettato alcuna ombra sulla sua carriera. Tra il salvacondotto e la grazia, infatti, Cherubino continuò a dipingere nel Palazzo Apostolico e ebbe successivamente un incarico altrettanto prestigioso – la cappella Aldobrandini presso Santa Maria sopra Minerva. Lavorò ancora per i Borghese, i Rospigliosi e i Visconti. In seguito fu iscritto alla Cittadinanza e alla Nobiltà Romana, fu insignito dei Cavalierati del Giglio e dello Sperone d’oro e ottenne il privilegio di aggiungere al suo stemma di famiglia il rastrello d’oro dello stemma Aldobrandini. Negli anni 1611-1614 fu eletto principe dell’Accademia di San Luca.

Le analogie nello svolgersi delle due vicende giudiziarie, ovvero gli accordi con le famiglie delle vittime che precedettero i successivi perdoni papali, fanno pensare a una forma rimediale usuale al sistema giuridico dello Stato Pontificio, comunque sottesa alla volontà e alla possibilità di mettersi d’accordo con la parte offesa.

Una riflessione, questa, che trova conferma in un recente studio condotto da Irene Fosi[14], secondo cui, per il grande divario tra teoria e pratica giudiziaria, la via privata alla risoluzione dei conflitti, tramite accordo con la parte offesa, fosse una consuetudine riconosciuta all’epoca. Gli atti di pace, infatti, contratti notarili a tutti gli effetti, prevedevano il perdono e la remissione perpetua dell’omicidio. Era fondamentale e indispensabile per lo Stato per mantenere l’ordine, spesso fragile, per evitare le faide. Una volta conclusa la pace si poteva sperare di ottenere un trattamento più clemente anche dal sistema inquisitorio. È questa la condotta con cui Cherubino riuscì a sfuggire la pena capitale e, soprattutto, a continuare la propria vita e l’attività nell’Urbe.

Indubbiamente, non va sottovalutato il ruolo svolto da protettori e patroni nel destino dei due artisti. La possibilità di Cherubino di rivolgersi a un Cardinale che a sua volta potesse inoltrare la supplica al Pontefice offriva ovviamente maggiori speranze di accoglimento, ma in realtà anche le procure parmensi parlano esplicitamente del ruolo svolto dai membri della famiglia Farnese nella decisone di Giovan Francesco Tomassoni di perdonare l’assassino di suo fratello.

Un altro aspetto da non trascurare è il ruolo, ideativo ed esecutivo, svolto da Cherubino Alberti nella decorazione della Sala Clementina. Sicuramente, un progetto ambizioso, tanto quanto lo era la sala di rappresentanza del nuovo Palazzo Apostolico in prossimità del vicino Giubileo del 1600, non poteva in alcun modo restare incompiuto, né, tanto meno, era possibile accettare eventuali cambiamenti in corso d’opera, dovuti all’assenza di Cherubino. Pertanto, il mandato di grazia con la restituzione dei beni confiscati, menzionato da Kristina Herrmann Fiore, è databile al 15 aprile del 1600, quando la Sala Clementina era già completata. Potrebbe essersi trattato di un ulteriore «bonus» per un lavoro eccezionale che ha soddisfatto in modo particolare il committente?

Se così fosse, la frase «il potere salvifico dell’arte» potrebbe acquisire un nuovo significato.

Bibliografia:

ABROMSON 1978

Abromson M. C., Clement VIII’s patronage of the brothers Alberti, in «The art bulletin», 1978, 60, 3, pp. 531-547

BAGLIONE 1642

Baglione G., Le vite de’ pittori, scultori, architetti et intagliatori dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 fino a’ tempi di papa Urbano VIII nel 1642, Roma 1642

BERTOLOTTI 1875

Bertolotti A., Autografi di artisti servati nell’Archivio di Stato di Roma, in «Giornale di erudizione artistica pubblicato a cura della regia Commissione conservatrice di belle arti nella provincia dell’Umbria», 1875, vol. 4, n. 7, pp. 193-201

COCCONI 2021

Cocconi G., Caravaggio in exile: new documents, in «The Burlington Magazine», 2021, 163, pp. 34-39

CONTIN, GATTA 2018

Contin D., Gatta S., La bottega dell’arte. I diari della famiglia Alberti artisti del Rinascimenti a Borgo Sansepolcro, Sansepolcro 2018

FOSI 2007

Fosi I., La giustizia del papa: sudditi e tribunali nello stato pontificio in età moderna, Roma 2007

HERRMANN FIORE 1983

Herrmann Fiore K., Disegni degli Alberti: il volume 2503 del Gabinetto Nazionale delle Stampe, Roma, Villa Farnesina, 25 novembre 1983-2 gennaio 1984, Roma 1983

PAMPALONE 2011

Pampalone A., La lista delle quarantore del 1597 per la festa di San Luca: nuovi documenti e precisazioni, in «Roma moderna e contemporanea», 2011, XIX, fasc. 2, pp. 213-228

VAES 1931

Vaes M., Appunti di Carel Van Mander su vari pittori italiani suoi contemporanei, in «Roma: rivista di studi e vita romana», 1931, IX, p. 344

VODRET 2021

Vodret R., Caravaggio 1571-1601, Roma 2021


[1] La fonte preziosa delle notizie biografiche sulla famiglia Alberti di Sansepolcro in generale e su Cherubino Alberti sono le ricordanze di Alberto Alberti, pubblicate in D. Contin, S. Gatta, La bottega dell’arte. I diari della famiglia Alberti artisti del Rinascimento a Borgo Sansepolcro, Sansepolcro 2018.

[2] La documentazione relativa al processo a Cherubino Alberti, ovvero la supplica di suo fratello Giovanni per un salvacondotto, è stata pubblicata da A. Bertolotti, Autografi di artisti servati nell’Archivio di Stato di Roma. Decade seconda, in «Giornale di erudizione artistica pubblicato a cura della regia Commissione conservatrice di belle arti nella provincia dell’Umbria», vol. 4 (1875), n. 7, pp. 193-201. La registrazione della sentenza (ASR, TCG, Registrazioni d’atti, reg. 132, c. 134v.), invece, non venne pubblicata. Tale registrazione pare essere stata nota allo stesso Bertolotti, in quanto tra le pagine del suddetto registro è tuttora presente un segnalibro con l’annotazione, presumibilmente di mano ottocentesca, «Cherubino Berti pittore».

[3] M. Vaes, Appunti di Carel Van Mander su vari pittori italiani suoi contemporanei, in «Roma: rivista di studi e vita romana», 1931, IX, p. 344.

[4] M. C. Abromson, Clement VIII’s patronage of the brothers Alberti, in «The art bulletin», 1978, 60, 3, pp. 531-547. Il 15 ottobre del 1599 Cherubino Alberti scrisse una lettera a Cristina di Lorena, la moglie di Ferdinando I de’ Medici, nella quale parlò di un pittore di Lorena che veniva istruito presso gli Alberti, dicendo «gli havemo anco assignato una stanza in Palazzo di N. S. dov’ facciamo una pittura in un Salon», circostanza da cui si evince che nel 1599 Cherubino era a Roma e lavorava nel Palazzo Apostolico. Per i pagamenti, intestati a Cherubino Alberti, Abromson indica la seguente documentazione: ASR, Camerale I, MC, busta 946, c. 29v; ASR, Camerale I, E-U, busta 1584, c. 126v.

[5] A. Bertolotti, op.cit., p. 200. Ad oggi non è possibile consultare tale promemoria che sembrerebbe perduto. Il tentativo di trovarlo negli altri fascicoli della busta non ha portato alcun risultato. Inizialmente si trovava insieme alla supplica, scritta da Giovanni Alberti: ASR, Miscellanea artisti, busta III, fascicolo 253.

[6] K. Herrmann Fiore, I disegni degli Alberti, Roma 1983, p. 33. Oltre il contenuto del regesto perduto, la studiosa menziona l’atto di grazia, concessa a Cherubino Alberti dal papa Aldobrandini il 15 aprile del 1600.

[7] Ringrazio vivamente Francesca Curti per la sua generosità di avermi indicato il sopradetto atto di pace (ASR, TNC, uff.13, vol. 108, cc. 503r, 503v.) e per i suoi suggerimenti che hanno permesso ulteriori riflessioni e approfondimenti.

[8] Cleria soror et heres Horatii de Benis. Inventarium. Cfr. ASR, TNC, uff. 13, vol. 101, cc. 283r, 283v.

[9] G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori, architetti et intagliatori dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 fino a’ tempi di papa Urbano VIII nel 1642, Roma 1642, pp. 131-133. Dice di Cherubino Alberti: «godendo le fatiche e i sudori di Giovanni, visse in sua casa con agio e con honore» e «perdeva il tempo che nella sua virtù impiegar poteva».

[10] A. Pampalone, La lista delle quarantore del 1597 per la festa di San Luca: nuovi documenti e precisazioni, in «Roma moderna e contemporanea», XIX, fasc. 2, 2011, p. 214; Archivio dell’Accademia di San Luca, vol. 42, c. 13v.

[11] D. Contin, S. Gatta, op. cit., p. 123: «Carbino mio filiolo a dì sopra ditto in città di Castello fu preso dal bargello con armi, miso in segrete. Io Berto insiemi con Alessandro mio giemo in Castello, subito feci una lettara a illustrissimo cardinale San Sisto, andò Alessandro e parlò al cardinale, e dette la lettara. Subito il dì di lo spacio di lo scrivare mandò la lettera dil cardinale al governatore che subito lo cavase e li rendesse armi e pani, se spese nisuno, così si cavò».

[12] R. Vodret, Caravaggio 1571-1601, p. 55.

[13] Tra i documenti rinvenuti a Parma ci sono due procure, registrate dal notaio Antonio Maria Prati. In entrambi i documenti si ribadisce il ruolo di alcuni membri della famiglia Farnese, ovvero Ranuccio I Farnese, Duca di Parma, Mario Farnese, Duca di Latera e Farnese e il Cardinale Odoardo Farnese. Con la prima procura, il 20 novembre del 1609 Giovan Francesco Tomassoni autorizzò il fratello Mario di stipulare la pace con Onorio Longhi, un altro protagonista della rissa del 28 maggio del 1606. Inoltre, si sottolineò che l’unico responsabile della morte di Ranuccio Tomassoni fosse Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. Pochi mesi dopo, invece, il 15 marzo del 1610 lo stesso Giovan Francesco autorizzò Mario Tomassoni a fare la pace anche con Caravaggio. Cfr. G. Cocconi, Caravaggio in exile: new documents, in «The Burlington Magazine», 2021, 163, pp. 34-39.

[14] Per l’approfondimento sulla giustizia dell’antico regime I. Fosi, La giustizia del papa: sudditi e tribunali nello stato pontificio in età moderna, Roma 2007. L’importanza degli atti pace nell’amministrare la giustizia pontificia è stata analizzata da Francesca Curti. Cfr. F. Curti “Misesi in una feluca con alcune poche robe”: l’ultimo viaggio di Caravaggio in «Storia dell’arte», n. 160, Nuova serie 2, 2023, pp. 87-113.

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