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Barocco globale, quando il mondo era di casa a Roma

Quando nel 1972 Fellini portò sullo schermo quel perfettissimo saggio audiovisivo su Roma, il suo biografo Tullio Kezich disse che nel guardare il film tutto sembrava familiare ma allo stesso tempo si aveva l’impressione di vedere “un documentario sull’Amazzonia”. Anche Giorgio Caproni, che elesse la città a terza casa, dopo Livorno e Genova, disse che gli sembrò di essere approdato in un luogo mediorientale, come se all’improvviso potesse sbucare fuori da un angolo un cammello. Roma contiene dentro di sé l’altrove, il fascino esotico di luoghi remoti abita da sempre la città e il suo mito.

Pochi altri luoghi della terra hanno avuto la vocazione di città-mondo, di Urbe assurta a Orbe (“hai fatto del mondo una città” scrisse Rutilio Namaziano nel V secolo a proposito di Roma). Una città che accolse il mondo, divenendo la prima metropoli della storia a superare il milione di abitanti, inglobando nel suo impero genti di ogni dove, che secondo l’antico rito di fondazione romuleo avrebbero dovuto gettare nell’Umbilicus Urbis – la sacra fossa che segnava il centro della città, equivalente all’omphalos greco – un pugno di terra del loro luogo d’origine, che veniva così a mischiarsi insieme simboleggiando il mondo intero. Chiusi definitivamente gli occhi Augustolo, la città che fu mondo divenne paese, saccheggiata e abbandonata, fino a ridursi a villaggio di pochi pastori, abitatori solitari di immense rovine soverchianti. Secoli dopo, Bonifacio VIII, con l’invenzione del Giubileo, riportò idealmente Roma al centro del mondo cristiano, ma solo nel Quattrocento iniziò la renovatio Urbis che condurrà a distanza di molti decenni all’ultima grande stagione universale di questa città, quella del Rinascimento e poi del Barocco.

Comincia da qui, dal Barocco globale della Roma secentesca, l’esposizione delle Scuderie del Quirinale, curata da Francesca Cappelletti e Francesco Freddolini. Una mostra che finalmente, uscendo dallo specialismo monografico dei singoli artisti (quasi sempre pittori), ha l’ambizione di raccontare con quasi un centinaio di opere di ogni genere il genius saeculi di un’epoca. Montaigne, tra gli spiriti europei più significativi dell’età moderna, venendo a Roma nel 1580 rimase impressionato dal suo cosmopolitismo, scrivendo che: “Roma è l’unico luogo dove qualunque forestiero si sente a casa”. D’altronde l’Urbe era, agli occhi dell’europeo, ancor prima che una meta imprescindibile per ogni rampollo di buona famiglia, un concetto, un luogo da coltivare nella mente e nell’anima. Ancora Montaigne scriveva: “ho avuto nozione delle cose di Roma molto tempo prima di averne avuta una di quelle della mia casa: conoscevo il Campidoglio e la sua posizione prima di conoscere il Louvre, e il Tevere prima della Senna.”

L’incontro con il Nuovo Mondo allargò enormemente gli orizzonti, portando in città nuove porzioni di mondi fino ad allora sconosciuti. Oltre le colonne d’Ercole, quelle terre sconfinate erano abitate da creature mostruose, sciapodi e megalocefali, pigmei e cinocefali, chimere confinate agli antipodi dall’uomo occidentale. E più gli spagnoli e i portoghesi si spingevano oltre questi confini e più quei mostri diventavano reali, trasformandosi però in nuove alterità umane, non più i mostri pliniani, ma altre civiltà, antiche e sofisticate, che squassarono l’Imago Mundi e la cosmovisione cristiana. Un ruolo chiave in questo periodo storico lo ebbero i missionari, gesuiti e francescani su tutti, che ardevano di desiderio nel portare il Vangelo ai nuovi popoli, selvaggi ai loro occhi. Erano chiamati indipeti, coloro che “petebant Indias”, che volevano partire a tutti i costi, andando spesso consapevolmente incontro al martirio.

Sono i martiri gesuiti crocifissi a Nagasaki, visibili in mostra nel dipinto del tedesco Schönfeld, quelli raccontati superbamente da Scorsese in “Silence”, che dopo un iniziale incontro favorevole con i giapponesi furono perseguitati. Ma l’Oriente, che da sempre calamita a sé l’Europa, con un richiamo sottovoce attraente come il canto delle sirene, significò anche la scoperta di nuove piante e animali, di fogge insolite e curiose, di una scrittura e di un patrimonio visivo totalmente altro da quello occidentale. Matteo Ricci, cartografo, matematico e sinologo gesuita (nominato Venerabile da papa Francesco, gesuita come lui e fortemente aperto all’incontro e al dialogo tra culture diverse), sbarcò a Macao nel 1582, dedicandosi per anni all’apprendimento della lingua e dei costumi locali, dando alle stampe la Carta geografica completa di tutti i regni del mondo, una grande xilografia realizzata in collaborazione con il letterato e cartografo cinese Li Zhizao (presente in mostra in un esemplare custodito alla Biblioteca Apostolica Vaticana), dove per la prima volta il centro del planisfero non è più l’Europa ma la Cina. Ricci assimilò la cultura cinese, introducendo al contempo alcune invenzioni occidentali come l’orologio o la geometria euclidea. È infatti lui uno dei “gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming” dei celebri versi cantati da Battiato (che provò a diventare l’altro, ad entrare nei suoi panni, come farà il Gulliver di Swift un secolo dopo).

Se Matteo Ricci spese molti anni in Cina in un viaggio più etnologico che missionario, l’altro grande gesuita del Seicento si servì di sguardi di seconda mano. L’enciclopedico Athanasius Kircher, infatti, mandò da Roma in tutto il mondo dei missionari, che tornando al Collegio Romano gli riportavano curiosità floreali e faunistiche, uccelli tassidermizzati e reperti minerali e archeologici, che allestì poi nel suo Museo Kircheriano romano, che fu qualcosa in più di una curiosa Wunderkammer, ma ambì quasi a contenere l’intero mondo in una stanza, per comprenderlo e classificarlo. In mostra un obelisco ligneo proviene da quel poco che rimane del suo museo; egli studiò anche i geroglifici, cercando di decifrarli vanamente, ponendo però le basi per l’egittologia, come pose le basi per altre scienze quali la vulcanologia, sempre sbagliando, ma intuendo e germinando. Tutti i suoi scritti furono possibili grazie a un enorme accumulo di materiale che andava sommando tutto il sapere classico, aristotelico e pliniano, in aggiunta ai bestiari ed erbari medievali e alla nascente scienza moderna, che proprio a Roma trovava una prima importante sede nell’Accademia dei Lincei, fondata da Federico Cesi nel 1603.

Come Kircher anche Ulisse Aldrovandi si servì di collaboratori che gli riportavano straordinari materiali eterogenei. In esposizione la maschera della divinità Yacateuctli, della cultura messicana Nahua, una bizzarra smorfia smagliante che sembra disegnata da Gaudì o Niki de Saint Phalle, che il naturalista bolognese inserì nel suo volume Musaeum metallicum, visibile nella teca accanto alla maschera.

Autore sconosciuto, Maschera di Yacateuctli, inizio del XVI secolo

Un grande merito dell’esposizione è proprio quello di innescare un dialogo intelligente tra le opere, tra i dipinti, le sculture, i libri, gli arazzi e i raffinatissimi apparati liturgici, tutti manufatti altrimenti muti che si è riusciti a far parlare (si può ascoltare flebilmente il “pianto delle cose” virgiliano). Le mostre sono brevi parentesi nelle quali si ricostruiscono dei contesti tramite delle opere che spesso si trovano in collezioni private o, anche quando pubbliche, all’interno di grandi musei e chiese dove tendono a scomparire. E l’opera che apre la mostra è un piccolo miracolo in tal senso: il busto di Antonio Manuel Ne Vunda, l’ambasciatore del Regno del Congo che morì pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma nel 1608, ricevendo l’onore della sepoltura in Santa Maria Maggiore (primo e unico africano) per volontà di papa Paolo V. Un prestito d’eccezione – concesso personalmente da Papa Francesco, che proprio nella basilica Liberiana ha scelto di essere sepolto –  che permette di vedere per la prima volta da vicino questo straordinario busto in marmi policromi, realizzato da Francesco Caporale a partire dalla maschera mortuaria dell’importante personaggio. L’Africa subsahariana veniva lentamente svelata, e là dove un tempo si credeva ci fossero solo i leoni, nel cuore di tenebra, si scoprivano regni attraenti e fascinosi, dai quali gli europei non esitarono a prelevare schiavi da spedire nel Nuovo Mondo.

Francesco Caporale, Busto di Antonio Manuel Ne Vunda, 1608.

Ne era già consapevole Bernini, che nella Fontana dei Quattro Fiumi rappresentò il Rio de la Plata simboleggiante l’America come un uomo dai tratti africani, a testimonianza dei cambiamenti demografici in corso. La grande fontana berniniana, caverna e Meta sudante, in esposizione con diversi modellini che ne illustrano l’iter realizzativo, diviene emblematica di tutta la mostra. I quattro fiumi rappresentano il mondo intero quadripartito, sormontati dall’obelisco con la colomba dello stemma papale di Innocenzo X Pamphilj, a voler significare che il dominio del papa e della Chiesa si estendeva Urbi et Orbi.

Un ultimo prezioso pregio della mostra è quello di interrogare il presente: è recente la notizia di un giovane americano recatosi nell’isola di North Sentinel nell’Oceano Indiano, dove vive una delle ultime popolazioni incontattate della terra. Mosso da chissà quale ardore o curiosità è approdato illegalmente per portare in dono agli indigeni una Coca-Cola, il sacro nettare degli americani. Questo gesto idiota ci pone ancora di fronte al fardello dell’uomo bianco, all’inscalfibile presunzione di dover salvare l’altro, portandogli la civiltà sotto forma di buona novella o di lattina. L’incontro con l’alterità è stato spesso uno scontro in passato, ma anche un fertile dialogo che ha innescato conoscenza, cultura e bellezza, e “Barocco globale” insegna anche questo.

Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini, a cura di F. Cappelletti e F. Freddolini, catalogo Electa 2025

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