La bottega di Francesco e Cesare Bartolomei, fabri lignarii nella Roma del Seicento

I volumi relativi ai mandati di pagamento agli artisti del Popolo Romano, afferenti al fondo della Camera Capitolina, offrono dettagliate informazioni sul lavoro commissionato dal Comune di Roma ad artisti e artigiani attivi nella città tra gli anni Settanta del Cinquecento e i primi dell’Ottocento. L’analisi delle carte consente di conoscere le diverse tipologie dei lavori eseguiti e di individuare i nomi di personalità il cui operato, allo stato attuale degli studi, è rimasto nell’ombra.
È questo il caso dei fratelli Francesco e Cesare Bartolomei, falegnami e intagliatori di origine toscana che a partire dagli anni Venti del Seicento sono efficacemente introdotti nei cantieri romani, dove si occupano di un ampio ventaglio di interventi: dal restauro alla realizzazione di opere lignee di diversa natura.
Nonostante le carte d’archivio testimonino l’operosità e la fortuna della bottega dei Bartolomei a Roma, il loro percorso personale di artigiani del legno non è stato oggetto di attenzione particolare da parte della critica. Grazie al reperimento di documentazione inedita è oggi possibile ampliare la storia già nota dei due fratelli lucchesi, offrendo ulteriori elementi di indagine e di riflessione sulla loro attività e su aspetti poco noti della loro biografia.
L’indagine ripercorre le tracce lasciate nei mandati di pagamento relativi alle opere commissionate dal Comune di Roma, ma anche documentazione all’apparenza meno setacciata dalla storiografia qual è quella dei volumi che raccolgono le richieste di cittadinanza, oltre all’immensa miniera costituita dai fondi del notariato, dai quali è stato possibile reperire il testamento di Francesco Bartolomei e l’inventario dei beni di Giovanni, figlio del fratello Cesare e anch’esso impiegato nella bottega di famiglia.
Francesco e Cesare sono originari di Pescaglia 1, un borgo in provincia di Lucca che sorge nella valle del Serchio, sulle Alpi Apuane, in un contesto rurale dove si vive prevalentemente di pastorizia e agricoltura. Non è da escludere che i Bartolomei apprendano il proprio mestiere di falegnami nel piccolo comune toscano, in un territorio nel quale le risorse di legname sono abbondanti e dove già nel 1585 sono documentate tre botteghe di legnaioli 2. In ogni caso da qui i due fratelli decidono di partire alla volta di Roma, meta ambita da chiunque fosse alla ricerca di possibilità economiche e culturali, sicuramente attratti dalle opportunità che la città può offrire loro e aspirando a trovare spazio in un contesto nel quale la richiesta di manodopera e di produzione artistica e artigianale è molto ampia.
Non è documentato l’anno di arrivo dei Bartolomei a Roma, ma è a partire dagli anni Venti del Seicento che risultano coinvolti in numerosi cantieri capitolini, elemento che suggerisce come le loro ambizioni professionali e lavorative siano state soddisfatte.
Nel 1621, insieme al falegname Cristofano Lucatelli, Francesco è capomastro nei cantieri camerali dove affianca Giovanni Battista Soria, intagliatore e celebre architetto 3. Troviamo Francesco anche a palazzo Mancini, sede dell’Accademia romana degli Humoristi, dove lavora ad una struttura architettonica in legno decorata da pilastri, lesene con capitelli dorici e dall’impresa dell’Accademia, una nuvola posta sul mare dalla quale cade la pioggia, accompagnata dalla massima «Redit Agmine Dulci» 4. Negli stessi anni è Cesare ad essere impegnato in un importante cantiere: la fabbricazione dei possenti armadi lignei destinati ad accogliere il fondo della biblioteca palatina di Heidelberg, coi suoi preziosi codici e libri a stampa che il duca Massimiliano I di Baviera nel 1622 aveva donato al pontefice Gregorio XV 5. Diversi pagamenti pubblicati da Giovanni Morello e rintracciati presso l’Archivio di Stato di Roma e la Biblioteca Apostolica Vaticana, risalenti agli anni 1623 e 1624, indicano il Bartolomei tra gli artefici dell’opera 6. Secondo le fonti il mastro lignario realizza sgabelli, tavoli e armadi per la biblioteca, decorati con le imprese dei pontefici Gregorio XV (1621-1623) e Urbano VIII (1623-1644).
Insieme, i Bartolomei si dedicano all’esecuzione delle porte in legno di noce collocate tra la sala dei Capitani e la sala dei Trionfi di palazzo dei Conservatori, unico lavoro, ad oggi, da riferire con certezza ai due artisti (Fig. 1).

Un dettaglio dell’opera, rappresentato dagli stemmi delle famiglie dei quattro magistrati in carica nel quarto trimestre del 1643, consente di conoscere l’anno esatto di realizzazione del lavoro ligneo 7. Le porte, articolate in due ante ciascuna, sono decorate da un raffinato intaglio attraverso il quale i Bartolomei danno vita ad episodi leggendari del periodo regio dell’antica Roma 8. Nella prima porta troviamo un’ambasceria in atto di offrire corona e clamide, Numa Pompilio e la Ninfa Egeria, Tarquinio Prisco e Tanaquilla, Servio Tullio che presiede alla costruzione della città. Nella seconda porta sono invece raffigurati Anco Marzio che assiste alla costruzione del Ponte Sublicio (Fig. 2), il Trionfo di Tarquinio Prisco (Fig. 3), la battaglia presso un’ara (Fig. 4) e la pioggia di pietre sul Monte Albano al tempo di Tullo Ostilio 9.


I Bartolomei sono quindi bene introdotti nella scena artistica romana di quegli anni.
La richiesta di cittadinanza avanzata dai due mastri lignarii nel 1635 al Comune di Roma, rinvenuta nei volumi conservati presso l’Archivio Storico Capitolino, si colloca in questo contesto. Nell’atto, i Bartolomei, si presentano come «fratelli lucchesi», e «supplicano le SS. VV. ILL.me à far loro grazia della Cittadinanza Romana» 10. La lettura del documento in questione risulta particolarmente significativa soprattutto se messa in rapporto alle altre testimonianze presenti nel medesimo fondo della Camera Capitolina. Per ottenere la cittadinanza romana, infatti, sono necessari una serie di requisiti il cui possesso viene nella maggior parte dei casi reso esplicito nelle lettere inviate ai Conservatori che devono rilasciare il titolo. Nel caso della missiva inoltrata dai Bartolomei al Comune di Roma, tuttavia, non si allude ad alcuna delle condizioni richieste. Il dato fa pensare che i Bartolomei, entrambi falegnami del Popolo Romano, siano già conosciuti dalle autorità capitoline e che non abbiano, quindi, bisogno di illustrare ulteriormente i propri meriti per ottenere quanto sperato.
Il Comune di Roma concede lo status ai fratelli che diventano quindi cittadini in quell’anno 11.
Il riconoscimento conferito dalla città è certamente indice di apprezzamento dell’attività dei Bartolomei che avevano, evidentemente, già raggiunto in quel periodo un’affermazione del proprio lavoro presso i cantieri capitolini. La circostanza è confermata dai numerosi mandati di pagamento che li riguardano, anche questi conservati presso l’Archivio Storico Capitolino, dai quali emerge una cospicua commissione di opere ai due artisti da parte del Comune di Roma.
Dall’analisi dei registri abbiamo indicazione dei compensi ricevuti dai Bartolomei dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta del Seicento 12.
Si tratta, per la maggior parte dei casi, di note documentarie scarne, partite di pagamenti che non specificano la natura dei lavori eseguiti dai due artigiani, lasciando difficilmente immaginare quali opere lignee possano essere con certezza ricondotte alla loro mano. Ma le carte documentano anche il profilo versatile dei Bartolomei, coinvolti in incarichi tra loro eterogenei: dagli interventi di restauro eseguiti sui soffitti del Salone di Campidoglio o della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, alla realizzazione di mobili e arredi. Un caso a suo modo esemplare è quello della «lettiera di noce con colonne scannellate», richiesta a Francesco nel 1620 per il palazzo di Campidoglio 13 che si aggiunge alla «cassetta di tavole d’albuccio, quale serve per metterce dentro la calce» o alle «tre cassette […] per metterci li colori de cinque cavalletti», commissionatigli nel 1635 «per servitio della pittura ch’al presente fa il s. Cavalier Giuseppino nel nostro salone di Campidoglio» 14. È il solo Cesare, invece, ad eseguire negli anni Quaranta «un piedistallo di legname […] ripiano tutto di lumi» per celebrare l’incoronazione di papa Innocenzo X 15. Mentre un mandato di pagamento del 1638 vede entrambi, Francesco e Cesare assieme, impegnati nella realizzazione di un «parafuoco di noce con telaro scorniciato da tutte le parte», decorato da teste di lupa e da altri motivi 16.
Degli aspetti privati racconta invece il testamento di Francesco Bartolomei, rinvenuto presso l’Archivio di Stato e risalente al 15 febbraio 1668 17.

Apprendiamo dal documento come alla data di redazione dell’atto, Cesare Bartolomei sia già morto.
Francesco chiede che il proprio corpo «separato che sarà dell’Anima […] sia vestito con il sacco della Compagnia delle Sacre Stimati, e così vestito sia portato alla Chiesa di dette Sacre Stimati», e ancora che nella chiesa di San Giuseppe dei Falegnami vengano celebrate «trentatré messe basse all’altare delle carceri de SS. Pietro e Paolo per salute dell’anima sua». Il testamento rende noto anche il rapporto di parentela che lega i due artefici a Giovanni Bartolomei, figlio di Cesare, cui Francesco lascia «in segno di amorevolezza […] uno delli quadri a sua volontà cioe o quello della Resurrezione di nostro Signore […] con cornice nera a fogliami d’oro, o pure un altro quadro un poco più grande con cornice simile de SS. Sebastiano, Francesco, et altri, o pure il quadro della Santissima Annunciata […] con cornice simile». Giovanni, come lo zio Francesco e il padre Cesare, esercita la professione di fabro lignario.
Da un documento conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana sappiamo che Giovanni, nel 1658, dopo la morte del Castelli, si candida per «l’Offitio di Architetto dell’Acqua Paola» 18. Negli anni Sessanta è impegnato nell’edificazione del nuovo palazzo del Capitolo di Santa Maria della Rotonda e in interventi di ristrutturazione del Pantheon 19. Una Misura e Stima di lavori risalente ai primi anni Settanta rende noto il suo ruolo nella realizzazione di intagli, porte in legno di noce, finestre, soffitte e stanze nel palazzo Nuovo del Campidoglio 20.
Giovanni muore poco dopo lo zio. A testimoniarlo è un inventario di beni a lui appartenuti, risalente al 1673 e redatto a seguito della sua morte 21. Nel documento viene descritto tutto ciò che era conservato nella sua casa, piena di mobili in legno molto probabilmente prodotti all’ interno della bottega di famiglia. Oltre agli arredi, nell’abitazione di Giovanni, troviamo tra numerose «scritture», bollettini e conti di lavori compiuti da Giovanni e dal padre Cesare. Significativo il riferimento ad un «privileggio del Popolo Rom[an]o di Francesco e Cesare», che potrebbe essere proprio il riconoscimento della cittadinanza ottenuta nel 1635.
Ancora, nella casa di Giovanni si conservano «trenta disegnini circa d’architettura» nonché un «privileggio di Dottorato». Rispetto a quella del padre e dello zio la sua formazione è sicuramente più completa e testimonia pertanto la graduale affermazione della famiglia nel contesto sociale e artistico di Roma. Tale processo di emancipazione è conferma di come le ambizioni con cui Francesco e Cesare lasciano il borgo di Pescaglia, si realizzino pienamente attraverso un progressivo radicamento nel tessuto sociale romano e attraverso il riconoscimento della loro professionalità.
La ricerca è ancora in corso e per far luce sul ruolo dei Bartolomei nell’ambito della lavorazione del legno a Roma sarebbe necessario individuare altre opere che possano essere testimonianza materiale del lavoro della loro bottega e che probabilmente sono da ricercare nelle chiese romane, nelle collezioni private e sul mercato antiquario.
Tra questi è possibile pensare al pulpito ligneo conservato presso la chiesa di Santa Maria in Aracoeli (Fig.5), un tempo ornato da numerose scene intagliate delle quali oggi rimane unicamente un riquadro raffigurante Gesù che predica nel Tempio 22.

L’ opera, come attesta lo stemma che la decora, risale agli anni del pontificato di Urbano VIII Barberini. González Palacios ha ipotizzato, di recente, un coinvolgimento nell’esecuzione del pulpito di due mastri lignarii molto attivi nel corso del Seicento nella Città Pontificia: Giovanni Battista Soria e Giovanni Maria Giorgetti 23. Quest’ultimo, peraltro, al pari di Francesco e Cesare Bartolomei, aveva lavorato all’interno di palazzo dei Conservatori, licenziando altre due porte lignee intagliate e installate tra la sala degli Orazi e Curiazi e la sala dei Capitani. Eppure, in considerazione del ruolo rivestito dai due fratelli lucchesi come falegnami del Popolo Romano, sarebbe credibile piuttosto che anche la realizzazione del pulpito fosse loro affidata, essendo attivi più di chiunque altro nei cantieri del Campidoglio e in più documentati con certezza all’interno della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, dove Francesco, nel 1630, è coinvolto nell’ esecuzione dell’imponente catafalco per la cerimonia funebre di Carlo Barberini24 e Cesare a più riprese è impegnato nel restauro del soffitto ligneo intagliato che «voleva venire in terra» 25. La presenza dei Bartolomei nella chiesa consente di supporre che anche la realizzazione del pulpito possa essere stata affidata ai due artisti e ci offre un nuovo spunto di approfondimento sull’opera svolto dai maestri toscani nella Roma dei papi del Seicento.
- ASR, Trenta Notai Capitolini, Officio 22, Testamenti, 15 febbraio 1668, c. 578. ↩︎
- PALAGI 1999, p. 106. ↩︎
- CURCIO 1999, p. 206 n. 113. ↩︎
- SPILA 2016, pp. 69-70, 72. ↩︎
- MORELLO 2004, p. 209. ↩︎
- Ivi, pp. 300-301, 306-307. ↩︎
- PIETRANGELI 1972, pp. 467, 470 n. 24; gli stemmi dei Magistrati in carica nel corso del quarto trimestre del 1643 sono quelli di Marco Casali, Giulio Cesare Dandini, Serafino Cenci e Curzi Boccapaduli. ↩︎
- Ibidem. ↩︎
- Ibidem. ↩︎
- ASC, Camera Capitolina, credenzone IV, t. 80, c. 132. ↩︎
- ASC, Camera Capitolina, credenzone I, t. 33, c. 136v. ↩︎
- Si fa riferimento ai seguenti volumi conservati presso l’Archivio Storico Capitolino: ASC, Camera Capitolina, credenzone VI, tomi 29-40. Si veda BENEDETTI 2001, pp. 16, 46-47, 57. ↩︎
- ASC, Camera Capitolina, credenzone VI, t. 29, c. 374. ↩︎
- ASC, Camera Capitolina, credenzone VI, t. 32, c. 158 r; il riferimento è al Cavalier d’Arpino, anche lui impegnato nel medesimo cantiere. ↩︎
- ASC, Camera Capitolina, credenzone VI, t. 37, cc. 151, 154. ↩︎
- ASC, Camera Capitolina, credenzone VI, t. 32, c. 164v. ↩︎
- ASR, Trenta Notai Capitolini, Officio 22, Testamenti, 15 febbraio 1668, cc. 578-579, 610- 611. ↩︎
- SEGARRA LAGUNES 2004, p. 380. ↩︎
- CURZIETTI 2008, pp. 173-174, 176-177, 181. ↩︎
- BENEDETTI 2001, p. 57. ↩︎
- ASR, Trenta Notai Capitolini, Officio 5, Instrumenti, 13 maggio 1673, cc. 117-131, 142-147. ↩︎
- RUSSO 2007, p. 48; l’immagine del pulpito completamente decorato da pannelli intagliati e da un Cristo crocifisso compare in FRASCHETTI 1895-96, p. 625. ↩︎
- GONZÁLEZ PALACIOS 2022, pp. 227-228. ↩︎
- BILANCIA 2004, pp. 95-96, 101, 113 n.16, 115 n. 53. ↩︎
- ASC, Camera Capitolina, credenzone VI, t. 37, c. 143. ↩︎
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