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Rivendicare il proprio nome: Fathi Hassan (o meglio Akkij)

Arianna Desideri

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Arianna Desideri

Hassan: AKKIJ è il titolo della mostra personale di Fathi Hassan (Il Cairo, 1957), che ha luogo nella sede romana della Richard Saltoun Gallery dal 12 giugno al I agosto 2025. A via Margutta, nel cuore della celebre topografia storico-artistica del Tridente, si situa il ritorno dell’artista a Roma a distanza di più di vent’anni.

Ora di base a Edimburgo, Hassan ha costruito un percorso professionale di caratura internazionale soprattutto a partire dagli anni Duemila, lungo direttrici transatlantiche e transmediterranee che dall’Egitto proseguono in Italia, in Francia, nel Regno Unito fino agli Stati Uniti d’America. Dopo quarant’anni di attività, il suo lavoro è diffusamente rappresentato nella letteratura teorica, critica e curatoriale, “canonizzato” tanto nell’ambito della crescente storiografia sugli artisti africani e della diaspora (Eulisse 2003; Artistes africaines: de 1882 à aujourd’hui, 2021) quanto all’interno delle ricognizioni geografiche sull’Asia dell’Ovest (Issa, 2019; Reflections, Contemporary Art of the Middle East and North Africa, 2020).
Cruciali nel consolidamento di questo quadro interpretativo, che si poggia certamente sulla biografia dell’artista e sui temi identitari ben evidenti nella sua poetica, vi sono la prolifica collaborazione con la curatrice e gallerista iraniana Rose Issa a Londra e la partecipazione alla collettiva Textures. World and Symbol in Contemporary African Art (2004) presso lo Smithsonian National Museum of African Art di Washington.

Il riconoscimento attuale del percorso di Hassan si sintonizza dunque con una più ampia e necessaria diffusione delle prospettive postcoloniali nel panorama degli studi, che tentano di “de-eurocentrare” lo sguardo sulla Storia dell’arte incentivando la visibilizzazione e il protagonismo delle soggettività afrodiscendenti e non solo. In tal senso, restringendo il perimetro a figure che hanno operato nel campo dell’arte, non si possono che citare le seminali attività in Europa, tra gli altri, di Rashed Areen con la rivista «Third Text» (1987–) o di Okwui Enwezor con Documenta XXI (2002), in una linea di continuità che prosegue tuttora con la nomina di Koyo Kouoh – prematuramente scomparsa lo scorso maggio – alla direzione curatoriale della prossima 61ª Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (2026).
Da Richard Saltoun, Hassan sceglie di esporre dieci pitture di medio formato prodotte nell’ultimo anno, a cui si affianca un nucleo di sette opere storiche, datate anni Ottanta-Novanta. Nella prima parte del percorso, articolato in generale entro un’unica sala a sviluppo longitudinale, la terra e il bambù ricoprono il pavimento a evocare le atmosfere della Nubia, conferendo alla visita un’esperienza sensoriale che si allontana dalla fruizione sterile del white cube; una soluzione allestitiva già adottata da Hassan in occasione di almeno due mostre a Pesaro agli inizi degli anni Duemila (Centro Arti Visive Pescheria, 2000, a cura di Achille Bonito Oliva; Benciv Art Gallery, 2004).

Fathi Hassan: AKKIJ, Installation Views, Richard Saltoun Gallery Roma, 2025. Courtesy of Richard Saltoun Gallery London, Rome and New York. Ph. Giorgio Benni
 

Per quanto la sua cifra stilistica sia mutata nel tempo in maniera fisiologica, le opere recenti lasciano intravedere il lungo processo di sedimentazione di motivi e iconografie nubiane nel suo immaginario. Nei fitti e sgargianti palinsesti visivi su carta riconosciamo gli animali della fauna egiziana (in questo caso, il coccodrillo e il serpente, ma già l’elefante e il cammello), i vasi per l’acqua utilizzati dalla nonna e a cui è dedicata la fortunata serie Contenitori (1993-1997), le effigi di sante e guerrieri (appartenenti al suo repertorio figurativo dal 1996), ma soprattutto l’impiego della scrittura araba che simula la calligrafia kufi – tratto davvero trasversale al suo corpus dagli esordi.
La differenza si rintraccia piuttosto nella struttura compositiva complessiva di ciascun dipinto: l’impaginazione degli elementi ha un andamento a fasce talvolta orizzontali, talvolta verticali, talvolta generato da un centro irradiatore; senza pause né punteggiature, le iconografie sono posizionate a incastro e in reciproca con-fusione. Non vi è una direttrice di lettura univoca, né una dimensione narrativa coerente, ma si vengono a creare agganci dello sguardo multifocali e innumerevoli incipit di possibili storie da inventare: in che universo si trova quella silhouette? Quelle sono delle lettere o delle rocce? C’è una processione sul dorso di un coccodrillo? … e così via. La bidimensionalità del piano è interrotta da rilievi materici (tessuti, merletti, stringhe fosforescenti) che, più o meno aggettanti, suggeriscono un movimento della superficie, amplificato dalla natura del supporto in carta, ondulato e non perfettamente aderente al fondo della cornice, che da lontano si risolve in un effetto quasi scultoreo.

Fathi Hassan: AKKIJ, Installation Views, Richard Saltoun Gallery Roma, 2025. Courtesy of Richard Saltoun Gallery London, Rome and New York. Ph. Giorgio Benni
 

Nella prima parte del percorso espositivo si attiva dunque una sorta di dialogo “allo specchio” tra le ultime produzioni sulla destra e il nucleo delle opere storiche sulla sinistra. Ad accomunarle, vi è da una parte la ricorsività della scrittura che – come accennavamo – costituisce l’orizzonte di sperimentazione primario di Hassan. Sin dalle pagine di quaderno e dalle piccole cartoline risalenti agli anni di formazione all’Accademia di Belle Arti di Napoli, in cui si diploma nel 1984, Hassan testa le potenzialità performative della ripetizione del gesto della scrittura, gioca con la lingua araba, con alfabeto e grafia, fino a trasformare le lettere in composizioni grafiche di puro significante. Il peso identitario del lavoro di Hassan si riconosce quindi sin da subito nella preservazione e nella valorizzazione della sua cultura di appartenenza, persino in contesti – si pensi a quello italiano degli anni Ottanta – in cui questa difficilmente poteva essere compresa. Oltre alla scrittura, un secondo filo carsico tra le opere è la rievocazione di memorie d’infanzia, della famiglia e dei suoi avi, segnati dal traumatico esodo dalla Nubia verso Il Cairo e dall’espropriazione delle terre paterne in Sudan, a causa della costruzione della diga di Assuan dal 1950.

Fathi Hassan, Nonna Monira, 1989. Courtesy of Richard Saltoun Gallery London, Rome and New York. Ph. Giorgio Benni

In mostra, l’artista accenna in particolare al sistema matriarcale della tradizione nubiana, esponendo Nonna Monira (1989) in cui è presente una fotografia della nonna – a mo’ di nume tutelare – e il video Blessed Nubia (2002), un montaggio di riprese private, girate nella casa a Il Cairo, dove le differenti generazioni di donne della famiglia sono colte in momenti di convivialità. La rivendicazione dell’identità nubiana è infatti dichiarata programmaticamente nel titolo della mostra: Akkij il “vero” nome di Hassan, il suo nome nubiano. 

Ben si comprende, quindi, quanto la biografia diasporica di Hassan si intrecci con i suoi temi di ricerca sin dagli anni Ottanta; e quindi, per corollario, quanto l’artista possa rappresentare un interessante caso “anzi-tempo” per rintracciare genealogie e presenze in Europa che oggi definiremmo postcoloniali. In tale direzione, il progetto di dottorato in Storia dell’Arte presso Sapienza Università di Roma, condotto da chi scrive (tutor: Prof.ssa Francesca Gallo) dal titolo Roma ai tempi della globalizzazione: diaspore e confronti tra culture (1989-2002), si propone di interrogare lo stato del tessuto artistico di una città dalla storica vocazione “cosmopolita”, in risposta (o in assenza di risposta) alle questioni migratorie e alla mobilità artistica, anche in relazione all’avvio di un sistema dell’arte a scala globale. Si analizzano il peso, la ricezione critica sulle riviste di settore e la circolazione espositiva di artisti provenienti dall’area del Mediterraneo, che allora erano identificati come “stranieri” – o peggio, “extracomunitari” – oltre alla ricettività degli artisti italiani e delle istituzioni locali riguardo i temi dell’intercultura e dell’antirazzismo.

Il progetto di dottorato si confronta con le sfide metodologiche delle prospettive postcoloniali (Lombardi-Diop, Romeo 2014) e postmigranti (Ring Petersen 2024), degli sguardi intersezionali e di genere, delle pratiche della storia orale e della Public History, nonché della storia delle migrazioni (Colucci 2018) e si inserisce entro un filone scientifico-curatoriale attualmente vivacissimo, che interroga la città attraverso posizionamenti inediti e “altri”: si pensi alle mostre Présences arabes (Parigi, 2024) e Paris Noir (Parigi, 2025), quanto a Roma pittrice (Roma, 2024-2025) e Barocco globale (Roma, 2025).

Nel cantiere di ricerca in corso, l’incontro con Hassan rappresenta una tappa imprescindibile. Se il suo percorso internazionale è ormai noto agli studi, resta infatti ancora molto da dire sul suo legame con l’Italia, con Napoli (città di formazione), Venezia (città d’esordio per la partecipazione ad Aperto 88 alla Biennale di Venezia), Pesaro e Fano (città di elezione per oltre vent’anni); ma soprattutto restano da districare i suoi rapporti con Roma, in cui l’artista svolge dal 1989 agli anni Duemila sporadici ma fruttuosi periodi di soggiorno. Uno tra tutti, la residenza all’Accademia d’Egitto (1989-1991), luogo permeabile per gli scambi tra artisti egiziani e italiani, oltre che unica istituzione culturale in rappresentanza di un Paese nordafricano in Italia. E ancora, nella Capitale Hassan avvia una collaborazione con Sala 1, diretto da Mary Angela Schroth, stella polare per la circolazione dell’arte africana nel corso degli anni Novanta, e una con Pio Monti, figura eclettica con cui stringerà un sodalizio amicale e professionale tra le gallerie di Roma e Macerata.

Dopo circa due decenni di assenza da Roma, Hassan torna quindi con la galleria internazionale di Richard Saltoun e con una mostra che, per quanto orientata alle ultime produzioni, permette di tessere rimandi con immaginari e temi di lunga data, forse non estranei alla memoria delle generazioni attive a Roma negli anni Novanta. Fathi Hassan decide di fare ritorno in un luogo caro, ma non solo con la sua presenza e con le sue pitture e scritture. Questa volta si ripresenta alla città rivendicando il suo nome nubiano: Akkij.

Il mio nome è trasparenza; il mio leggero essere non altro che una domanda nel vuoto
Fathi Hassan, Un africano caduto dal cielo, Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2014. p. 35

(Un ringraziamento a Fathi Hassan, alla Prof.ssa Francesca Gallo e alla Galleria Richard Saltoun)

Immagine in apertura: Fathi Hassan, The Crocodile’s Dream, 2024. Courtesy of Richard Saltoun Gallery London, Rome and New York. Ph. Giorgio Benni

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