Guglielmo Pacchioni e Pasquale Rotondi: due vite per la tutela del patrimonio nel racconto di Giovanna Rotondi Terminiello*

In un elegante appartamento del centro storico di Genova, a metà strada tra Palazzo Spinola e la Cattedrale di San Lorenzo, incontro la dott.ssa Giovanna Rotondi Terminiello. Storica dell’arte e voce autorevole per gli studi sul patrimonio ligure, ha guidato la Soprintendenza di Genova per vent’anni, dal 1976 al 1996. Oggi, prosegue il suo impegno nella difesa dell’arte con il “Premio Rotondi ai salvatori dell’arte”, istituito nel 1997 in memoria del padre Pasquale Rotondi e conferito a personalità distintesi nella protezione del patrimonio culturale mondiale.
Figlia di uno dei più eminenti soprintendenti italiani e a sua volta soprintendente, la nostra interlocutrice offre uno sguardo privilegiato per riflettere sul valore culturale, civico e politico di questa funzione. La conversazione si articola su un doppio registro: da un lato il “lessico familiare” dei ricordi, intessuto di episodi privati e memorie affettive; dall’altro il rigore della storica che ricostruisce il significato e le implicazioni delle politiche di tutela nel Novecento. Ne deriva un ritratto vivido della professione, nel quale riemergono figure rimaste sorprendentemente ai margini della memoria pubblica, tra cui quella del soprintendente Guglielmo Pacchioni (1883-1969).
È attorno a lui che si concentra questo dialogo: soprintendente alle Gallerie in città di primaria importanza per la storia dell’arte – Torino dal 1923 al 1933, Urbino fino al 1939, poi Milano durante la guerra, e infine Firenze – conobbe nelle Marche il giovane e promettente storico dell’arte Pasquale Rotondi. Da quell’incontro nacque un sodalizio professionale e umano destinato a rafforzarsi negli anni del conflitto, quando entrambi furono protagonisti dell’Operazione Salvataggio, condotta da Rotondi, per la messa in sicurezza dei capolavori minacciati dai bombardamenti.
chi scrive di quel tempo sui soli documenti
non capisce che cosa furono quei rapporti,
un fare preciso e un pensarsi caotico.
Rossana Rossanda1 R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005, p. 77
Essere Soprintendenti alle Gallerie
Julie Pezzali: In una prospettiva di ricerca che miri a ricostruire criticamente la figura di un Soprintendente storico dell’arte attivo tra gli anni Trenta e Cinquanta, quali direttrici metodologiche ritiene debbano orientare l’analisi?
Giovanna Rotondi Terminiello: Per comprendere la condotta degli storici dell’arte impiegati nelle Soprintendenze nazionali di quegli anni, è innanzitutto fondamentale avere sempre a fuoco quale fosse l’assetto degli uffici di tutela. Le Belle Arti non erano amministrate da un ministero autonomo, bensì da una Direzione Generale incardinata insieme ad altre in seno al Ministero della Pubblica Istruzione; il Ministro e il Direttore generale ricoprivano un ruolo assolutamente determinante, alla loro approvazione era subordinata ogni decisione presa dalla rete periferica delle Soprintendenze. Oggi è difficile persino immaginare la complessità e la varietà dei compiti che, per legge, gravavano su un Soprintendente: non solo funzioni di tutela sul territorio in senso stretto, ma anche responsabilità istituzionali, amministrative e scientifiche. A lui faceva capo anche la direzione dei musei, gallerie o pinacoteche che fossero, le quali dipendevano dalla Soprintendenza all’Arte Medievale e Moderna, ribattezzata alle Gallerie dopo la riforma Bottai del 1939, ed erano considerate parte integrante dell’attività di tutela. La legge consentiva ai Soprintendenti di nominare per i musei dei curatori, incaricati di guidare le operazioni di restauro degli edifici e di progettare gli ordinamenti, nonché di garantire il regolare funzionamento di questi istituti. Così accadde, ad esempio, a mio padre che nel 1938 dalle Marche fu trasferito per un anno a Roma alla direzione della Galleria Corsini.
JP: Posto il duplice compito che gravava sui Soprintendenti, quale era il rapporto tra l’esercizio della tutela sul territorio e l’esposizione al museo?
GRT: Le mostre didattiche rappresentano un esempio concreto di questo rapporto: al museo venivano presentati i risultati dei restauri effettuati su opere provenienti ad esempio dalle chiese del territorio oppure, quando il Ministero riusciva a perfezionare degli acquisti – talvolta intercettando opere di interesse segnalate negli Uffici di Esportazione delle Soprintendenze – tali opere potevano essere destinate al museo. Questo accadde soprattutto nel secondo dopoguerra, quando il museo, come istituzione, divenne punto di riferimento imprescindibile. Va tuttavia ricordato che la dotazione economica annualmente assegnata alle Soprintendenze non era mai equamente distribuita a livello nazionale: alcune disponevano di maggiori risorse, altre di molto meno. Ad ogni modo, con quei fondi, sufficienti o meno, occorreva far fronte a ogni necessità, dai restauri alle gallerie. Basti pensare al caso della Soprintendenza del Piemonte che prima della riforma Bottai amministrava un territorio vastissimo, dalle Alpi alle coste liguri, con risorse limitatissime, affrontando sfide gestionali notevoli. A ciò si aggiungeva la cronica carenza di personale, che costringeva i Soprintendenti a ricoprire una molteplicità di funzioni, trasformandoli in veri e propri “tuttofare”.
JP: In questo contesto istituzionale che Soprintendente fu Guglielmo Pacchioni?
GRT: Il modus operandi del Soprintendente Pacchioni dovette cambiare notevolmente in base al contesto nel quale si trovò a operare nel corso della sua lunga carriera. Non si deve mai sottovalutare, oggi come allora, l’importanza dei collaboratori, con i quali il Soprintendente si confrontava quotidianamente e poteva rafforzare, attraverso lo scambio, le proprie convinzioni scientifiche e le scelte operative. Tuttavia, poteva accadere che taluni collaboratori non accettassero di vedere ignorati i propri pareri di fronte a decisioni opposte assunte dal Soprintendente. Ad esempio, la polemica sorta a Milano fra Pacchioni e Fernanda Wittgens va riletta alla luce del concreto funzionamento di una macchina amministrativa come la Soprintendenza: in quanto sua sottoposta gerarchica, la Wittgens non godeva di piena autonomia decisionale e doveva costantemente riferire al suo superiore, che aveva l’ultima parola. Dotati entrambi di forti personalità, inevitabilmente finirono per entrare in conflitto, non riuscendo a instaurare rapporti di fiducia e stima reciproca.

Il rapporto con Fernanda Wittgens a Milano e Pasquale Rotondi nelle Marche
JP: Grazie a recenti studi, la storia della Wittgens è oggi molto nota tanto che la narrazione intorno alla sua figura ha assunto dei contorni ai limiti dell’agiografia; mentre non mi sembra sia stato sufficientemente ricordato come la sua azione si sia collocata all’interno di una più ampia rete, quella della Soprintendenza alle Gallerie di Milano guidata dal 1939 al 1945 proprio da Pacchioni, cosa ne pensa?
GRT: L’impegno di Fernanda Wittgens fu straordinario ed è giustamente celebrato: dai mesi trascorsi in carcere a San Vittore fino alla ricostruzione della Pinacoteca di Brera e del sistema museale milanese. Va però ricordato, per verità storica, che senza il contributo e lo strenuo impegno del Soprintendente Guglielmo Pacchioni, i tesori artistici non solo milanesi ma di buona parte dell’Italia settentrionale avrebbe corso il serio rischio di distruzione. Nell’Operazione Salvataggio, l’apporto di Pacchioni fu assolutamente capitale.
JP: A proposito dell’Operazione Salvataggio, mi racconta del rapporto tra Pacchioni e suo padre?
GRT: L’amicizia tra Pacchioni e mio padre – che cominciò la carriera nelle Marche alle sue dipendenze – nacque dalla condivisione dei medesimi ideali e orizzonti critici, mutuati dal comune magistero di Adolfo Venturi, che fu maestro di mio padre a Roma. La condivisione di questi riferimenti culturali e intellettuali spiega con ogni probabilità la prima assunzione di Rotondi ad Ancona, subito dopo il conseguimento della laurea nel 1932. Insieme a Bruno Molajoli, mio padre fu infatti assunto come “salariato” nella Soprintendenza di Pacchioni, che lo accolse dietro raccomandazione di Venturi, e lavorarono insieme alla schedatura del patrimonio artistico del territorio confluita nell’Inventario degli oggetti d’arte delle Provincie di Ancona e Ascoli Piceno.
Anche l’Operazione salvataggio trovò fondamento proprio in questa concezione critica condivisa, diretta erede dell’insegnamento venturiano, e accomunò tutti coloro che vi presero parte attiva, a cominciare da Pacchioni, che dal 1939 passò alle Gallerie di Milano. D’altro canto, aveva già maturato una significativa esperienza durante il primo conflitto mondiale, e non fu colto impreparato allo scoppio del secondo: celebre l’episodio avvenuto a Milano, quando riuscì a fermare un treno carico di casse della Banca d’Italia e a deviarlo per metterlo in salvo. A Cassina de’ Pecchi, dove ha sede il Museo dell’arte in Ostaggio, dal 2018 la corte antistante il museo è intitolata a Guglielmo Pacchioni e Pasquale Rotondi «salvatori dell’arte nell’ultima guerra», a testimonianza del legame e della compattezza della cerchia degli allievi e degli amici di Venturi. I rapporti tra Pacchioni e mio padre, nati in ambito professionale, si trasformarono presto in un’affettuosa amicizia: non a caso mio padre chiese al Soprintendente di fargli da testimone di nozze al matrimonio con mia madre, Zea Bernardini, celebrato ad Ancona il 15 ottobre 1934.

JP: Nel 1939 Rotondi succedette a Pacchioni alla guida della Soprintendenza marchigiana e affrontò il problema, ampiamente dibattuto nell’Italia di quegli anni, della presenza di un museo in un edificio monumentale di alto valore storico e architettonico. Come affrontarono Pacchioni e Rotondi tale questione nel Palazzo Ducale di Urbino, sede della Galleria Nazionale delle Marche dal 1912?
GRT: Tenga presente che io ho conosciuto il Palazzo Ducale con gli occhi di una bambina, esperienza ben diversa da quello dello studioso. Fin da allora, l’edificio esercita su di me un fascino quasi fisico, legato ai miei ricordi d’infanzia. Seguendo la carriera di mio padre, ho vissuto a Urbino fino a dieci anni; poi, per un altro decennio, a Palazzo Ducale a Genova, e successivamente a Roma, nell’allora sede dell’ICR in piazza San Francesco di Paola. Il mio rapporto con gli spazi è quindi sempre stato mediato da ambienti non concepiti per fini abitativi, ma resi straordinari dal fascino che mio padre seppe trasmetterci, facendoci vivere quei luoghi in modo assolutamente naturale. Da bambina, se avessi incontrato nel Palazzo Federico da Montefeltro o Battista Sforza, non mi sarei di certo stupita: mio padre ce li aveva “presentati” raccontandoci la loro storia, insieme a quella del figlioletto Guidobaldo. Durante la guerra, quando lo Studiolo fu smontato per mettere in sicurezza le tarsie, venne alla luce un mobile a scomparsa che, aperto, si trasformava in un leggio con sedile ribaltabile. Smontandolo, sul muro di fondo apparve un’iscrizione a carboncino “Pantasilea”, vergata con calligrafia infantile. Suggestionate dai racconti paterni, io e mia sorella Paola ci convincemmo che fosse opera del piccolo Guidobaldo, che, rimasto orfano di madre nel 1472, volle lasciare sul muro il nome della nutrice2 [1] Nel 1951 Pasquale Rotondi pubblica la ricostruzione del mobile-leggio in un disegno di Ivo Ranocchi, ripubblicato da G. Rotondi Terminiello, Il palazzo di Federico, un’abitazione regale del Rinascimento, in Il Montefeltro e l’Oriente islamico. Urbino 1430-1550. Il Palazzo Ducale tra Occidente e Oriente, (a cura di) A. Bruschettini, catalogo della mostra (Urbino, Galleria nazionale delle Marche, Palazzo Ducale, 23 giugno – 30 settembre 2018) Genova 2018, pp.15-17, in part. n. 7. . Così, correndo nei passaggi segreti o giocando nel camino della Sala del Trono, rivivevamo magicamente la vita dei Montefeltro di cinque secoli prima.
Per quanto riguarda i restauri e la sistemazione della Galleria Nazionale a Palazzo, in linea con i suoi gusti modernisti, Pacchioni introdusse criteri espositivi semplici e razionali, rispettosi dell’architettura e volti a eliminare strutture posticce. Nel 1934 affrontò il problema della parziale ricollocazione delle tavole della serie degli Uomini illustri, strappate nel Seicento e poi confluite a Palazzo Barberini, cercando un equilibrio tra la ricostruzione storica degli ambienti e la valorizzazione del singolo pezzo. Da allora le scoperte non si sono fermate: durante i recenti restauri del 2025, sotto la direzione di Luigi Gallo, sono riemersi nuovi ambienti legati alla vita privata del Duca e le nostre conoscenze sono andate molto avanti rispetto agli studi pionieristici di Pacchioni e mio padre. Per tornare a quanto detto pocanzi, si immagini, in un caso come quello marchigiano, cosa significasse essere al contempo Soprintendente delle Marche e direttore della Galleria Nazionale di Urbino, compito, quest’ultimo, che da solo avrebbe richiesto l’attenzione costante di uno specialista.

La figlia Anna Pacchioni
JP: Nel corso di una ricerca emergono frequentemente dati biografici, talvolta utili a chiarire passaggi altrimenti oscuri. Ad esempio, risulta che Pacchioni nel 1908 si sposò e che l’anno successivo nacque la figlia Anna. Conserva memoria o notizie di questa figlia?
GRT: Anna fu una scrittrice di grande talento. Rileggendo uno dei suoi libri, L’ultimo cavallo, raccolta di racconti pubblicata nel 1958 e dedicata ai suoi genitori, sono rimasta colpita dalla sua grande modernità. Particolarmente significativo è un racconto che ha per protagonista un sacerdote che perde la fede ma per non deludere e abbandonare gli amati parrocchiani custodisce il segreto di questa crisi spirituale. Sul letto di morte confida il suo tormento al vescovo il quale, per evitargli di commettere peccato, gli porge un’ostia sconsacrata: al momento di riceverla, l’ostia si trasforma in un raggio di luce. È un racconto sconvolgente, tanto più se si considera che fu scritto sotto Pio XII, prima del Concilio Vaticano II. Questa raccolta di racconti apparve inaspettatamente dopo libri specialistici come La seta nella moda attraverso i secoli (1952) e Manzù (1948), entrambi introdotti da Lionello Venturi. Devo confessare che Pacchioni nutriva una scarsa considerazione per la figlia come studiosa, ritenendola ancora “debole” sul piano critico: così, dopo la monografia su Manzù, le suggerì di orientarsi verso un argomento circoscritto e poco frequentato, come la seta. Personalmente, credo che Anna si sia avvicinata alla storia dell’arte attratta dal fascino paterno, ma la sua esuberanza di fantasia e invenzione trovò uno sbocco autentico nella narrativa. L’ultimo cavallo ne è la prova più evidente: vi si coglie una sensibilità e una immaginazione certamente non provenienti dal padre, ma anche una laicità che, invece, li accomunava.
JP: Dalle carte emerge l’immagine di un padre inizialmente molto presente: nel 1930 i due pubblicano insieme un libro su Mantova e le introduzioni di Venturi sembrano riconducibili alla sua mediazione. Tuttavia, in seguito, di Anna si perdono le tracce. È possibile che fra i due sia intervenuta una rottura?
GRT: A mio avviso, il momento dell’allontanamento coincise proprio con l’affrancamento dal “giogo paterno”, quando dopo gli studi e i primi passi mossi come storica e critica d’arte, Anna si dovette rendere conto che quella non era la sua strada. Gli attriti probabilmente perdurarono fino alla fine, tanto che lei non conservò nulla della memoria paterna. Parlo per esperienza: non è mai semplice, per un figlio, occuparsi dell’eredità spirituale e materiale lasciata da personalità importanti, come fu anche quella di mio padre. È necessario tenere ben distinte le sfere, la figura dello studioso dai ricordi intimi e privati, anche se spesso nell’attività scientifica, si ritrovano dei tratti caratteriali, propri alla persona.
Sfortuna critica
JP: A fronte di una carriera così rilevante, in che modo possiamo interpretare la sfortuna critica che ha investito la figura di Pacchioni?
GRT: A mio avviso, diverse sono le cause concorrenti: in primo luogo, i continui e repentini trasferimenti da una sede all’altra non giovarono affatto a un processo di radicamento in una città o in un territorio specifico. Il Soprintendente Pacchioni incise in molte città importanti – Torino, Milano, Firenze – ma senza mai radicarsi stabilmente. In secondo luogo, contribuì alla formazione di giovani studiosi, come mio padre e Bruno Molajoli nelle Marche, che a loro volta ebbero un impatto notevole nei contesti dove operarono, con scelte e iniziative che finirono per oscurare, seppur involontariamente, la figura del loro predecessore. A Milano, invece, ritengo che ciò avvenne in maniera più consapevole ad opera della Wittgens, la quale molto vicina a Ettore Modigliani, non dimostrò mai particolare apprezzamento per le scelte di Pacchioni. Va inoltre considerato che quest’ultimo non insegnò mai: non tenne corsi universitari e non formò allievi che potessero tramandarne la memoria. Fu un uomo delle istituzioni, del “fare”, operativo su molti fronti e in molteplici campi. Non possiamo ignorare che i fatti bellici, due guerre nel giro di un trentennio, costrinsero una generazione di funzionari a lavorare in un continuo stato di emergenza, che, giocoforza, ridusse notevolmente il tempo da dedicare allo studio.
Rapporto con il Fascismo
JP: Infine, resta da interrogarsi sul rapporto con la politica: sebbene Pacchioni abbia evitato nette prese di posizione – che avrebbero compromesso la sua vita personale e professionale – maturò precocemente un atteggiamento di distacco nei confronti del Fascismo che, successivamente, si consolidò. A mio avviso, il repentino trasferimento nelle Marche deve essere letto come una forma di punizione nei confronti di un funzionario che aderì al Partito nazionale Fascista soltanto nel 1933, quando l’iscrizione era condizione indispensabile nei pubblici uffici. Inoltre, Pacchioni aderì al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e partecipò attivamente alla Liberazione di Milano. Come conciliare le proprie posizioni personali con l’incarico di Soprintendente, funzionario dello Stato?
GRT: In quegli anni, alcuni funzionari praticarono una forma di opposizione silenziosa. Pacchioni e mio padre non ebbero mai contrasti e instaurarono un rapporto di sincera amicizia anche perché condivisero le stesse idee politiche. Come ha ampiamente documentato Anna Melograni3 A. Melograni, «Per non ricordare invano». Il “Diario” di Pasquale Rotondi e la corrispondenza con i colleghi delle Soprintendenze e la Direzione Generale delle Arti (1940-1946) in «Bollettino d’Arte», serie VII, f. 27, luglio-settembre 2015, pp.115-200. Un sentito ringraziamento alla dott.ssa Anna Melograni per aver favorito quest’incontro. , i due si scrissero moltissimo durante la guerra, sostenendosi reciprocamente nelle operazioni di ricovero e salvataggio. Di recente, ho ritrovato un fascicolo che mio padre intitolò Ingerenze del Partito fascista repubblicano nelle pratiche d’ufficio nel quale raccolse documenti d’ufficio, risalenti agli anni Trenta e Quaranta, che mi paiono molto indicativi anche per comprendere la condotta del suo collega Pacchioni. Come Soprintendenti, nelle quotidiane pratiche d’ufficio erano soggetti a continue pressioni da parte del Regime, soprattutto in materia di controllo sul personale dipendente. In quel fascicolo vi è un documento del 1937 che certifica l’iscrizione tardiva al Partito nazionale Fascista di mio padre, risalente al 5 febbraio 1932, e quindi obtorto collo come Pacchioni, a conferma di un atteggiamento critico. Inoltre, su alcune carte, si leggono le annotazioni manoscritte di mio padre «non protocollare», «come non ricevuto», «non rispondere»: prove evidenti di una resistenza passiva, esercitata dall’interno ma strenuamente. Mio padre fu contrario al Fascismo ma non fu mai militante, non ostentò mai il suo antifascismo, neanche dopo la guerra. Emblematico è l’episodio del suo incontro con Paolo Emilio Taviani, figura di spicco della Resistenza in Liguria e ministro in vari governi democristiani: quando si conobbero a Genova, mio padre raccontò a Taviani il suo impegno nel salvataggio del patrimonio e Taviani, colpito, gli propose immediatamente la tessera del partigiano, che mio padre rifiutò, ritenendo di aver compiuto il proprio dovere. Né Pacchioni, né Rotondi sfruttarono mai la vicenda del salvataggio del patrimonio per ottenere avanzamenti o riconoscimenti: furono funzionari onesti e uomini profondamente laici. Come noto, la “riscoperta” di mio padre è stata tardiva e del tutto fortuita. Quella di Pacchioni, invece, deve ancora compiersi.
* L’intervista si inserisce nell’ambito del Dottorato di ricerca di Julie Pezzali (Sapienza Università di Roma, 39° ciclo, tutor: Prof.ssa Irene Baldriga, co-tutor: Prof. Valter Curzi) sulla museografia e museologia italiana del Novecento, con particolare riferimento all’attività del Soprintendente Guglielmo Pacchioni.